Stretto di Messina, c’era una volta il panorama

Lo Stretto visto dai punti più panoramici della città è una visione magica, disturbata da masse architettoniche che con il loro atteggiamento inconsulto ne disturbano l’incanto.

In alcune prospettive questo magma architettonico distrae fortemente l’attenzione e non permette la messa a fuoco del prodigioso scenario, come un tafano che ci disturba impedendoci la contemplazione della bellezza della natura.

Quel groviglio squilibrato di volumi, che si affastellano arrampicandosi l’uno sull’altro per guadagnar meglio il panorama, produce un vero e proprio disturbo biologico che turba la psiche e altera la percezione. Come quando attorno a noi tutto è sereno ed armonico ma noi non riusciamo a goderne perché colti da un malessere interiore che compromette il nostro equilibrio biologico.

Il profilo terracqueo dello Stretto da certi punti di vista è fortemente contrastato da forme che si soprappongono d’imperio e quasi lo deturpano. E’ la forma della città che si è espansa sulle colline della riviera nord e con la sua massa architettonica improbabile molesta il profilo netto e naturale dello Scill’è Cariddi.  Una grande contaminazione che ha anche un pernicioso risvolto culturale.

Si tratta, anche, della violazione di un mito, della profanazione di una percezione archetipica.

Lo Stretto è uno dei tanti scenari di grande valore ecologico e culturale la cui incommensurabile bellezza l’uomo viola da quando la meccanizzazione l’ho ha reso più aggressivo nei confronti dell’ambiente naturale, permettendogli di arrampicarsi ovunque e rendendolo l’unico essere vivente capace di intervenire drasticamente sulla natura ed alterarne gli equilibri e l’armonia.

La sua intelligenza quando non è sorretta da una solida struttura etica e morale diventa strumento di rapina. Ciò spiega perchè, molto spesso, egli provoca al paesaggio e alla natura irreversibili sottrazioni.

Così anche la visione del panorama dello Stretto, uno degli scenari naturali più belli al mondo, è irreversibilmente contaminata.

Bisognerebbe imporre un canone imprescindibile, una legge ferrea, che preveda che tutte le attività antropiche: tutti i suoi manufatti che l’uomo produce dovrebbero essere all’altezza della bellezza naturale con la quale questi si relazionano. Una lezione in tal senso c’è la data Frank Lloyd Wright con la sua Casa Casa Kaufmann, sulla cascata del ruscello di Bear Run.

Oggi il profilo della città che si specchia sul mare disturba persino l’incantesimo di quella città fantastica che si specchia sull’acqua ed in certe condizioni atmosferiche genera la magia del mito nordico della Fata Morgana.

La purezza della forma dello Stretto è marginato da una massa che corrompe la sua perfezione naturale. Una massa architettonica che non ha tentato un minimo di dialogo con il paesaggio in cui si impone. Palazzi che hanno un rapporto drammaticamente ultroneo con quel fantastico contesto. Organismi che, se ben organizzati, qualificherebbero senz’altro una brulla pianura e potrebbero essere elemento di carattere accettabile in una moderna periferia omologata, ma non il complemento di un luogo naturale di così straordinaria bellezza.

Pier Paolo Pasolini sosteneva che: “la forma della città si manifesta, si rileva, se confrontata con un fondale naturale”.

Lo Stretto è un grande fondale naturale che denuncia esso stesso, in modo implacabile, quanta disarmonia l’uomo ha creato a queste latitudini con i suoi recenti paradigmi urbanistici.

Il grande poeta continuava affermando che: “La forma della città e il problema della salvezza della natura sono un problema unico, ma sempre si pone il problema di rispettare il confine tra il profilo della città e natura circostante”.

Forse i poeti dovrebbero cominciare a dare il loro contributo all’urbanistica o l’urbanistica dovrebbe ascoltare di più i poeti.

 

Carmelo Celona

24.05.2020