Le cupole rosse della chiesa di San Giuliano, un falso storico che diventa identità

La capitozzatura feroce degli alberi cittadini ci restituisce inedite cartoline a colori della Messina risorta dopo il 1908, della quale tutti conserviamo l’immagine in bianco e nero o seppiata delle foto d’epoca.

 

Falcidiati i platani di via Garibaldi appare in tutta la sua ridondanza l’involucro del tempio di S. Giuliano.

Un miscuglio di verbi architettonici eterogeneo, compulsivo, quasi psichedelico.

 

C’è di tutto: accenni di alti transetti romanici con copertura a capanna, bifore e trifore ad ogiva, pinnacoli, improbabili portali gotici alla Notre Dame, torri campanarie inglobate in un susseguirsi insensato di volumi e di forme di eterogenea natura, merlature e merletti.

 

Singolare è la sequenza di parallelepipedi che affiancano l’ingresso di via Garibaldi i cui volumi

sormontati da singole cupolette, alla maniera araba, alludono molto a S. Giovanni degli Eremiti, di Palermo, mentre la snella trifora racchiusa in una cornice a capanna, ostenta sulla lunetta una strana croce greca (forse copta). Questi elementi conferiscono un atteggiamento da chiesa ortodossa, una di quelle chiese dell’est europeo che si ispirano alla tradizione ortodossa. Un lessico molto lontano dalla tradizione cristiana richiamata dalla croce latina che campeggia sul timpano d’ingresso.

 

Così il taglio degli alberi scopre un edificio affollato di volumi e di segni sul quale spicca la bollosità di cupole e cupolette semisferiche rosse che contrastano con il grigio che omologa il resto della fabbrica, quasi a celebrare quel cemento, materia facilmente plasmabile, che ha consentito quel  pastiche linguistico e che gli conferisce un atteggiamento tetro.

 

Una polisemia che esprime un citazionismo sconclusionato che travalica ogni eclettismo, anche quello più indifferentista e speculativo, e si fa autentico esempio di eclettismo folcloristico.

 

Imbarazza la grottesca enfasi della rappresentazione del falso storico delle cupolette rosse. Un falso di quel falso storico che la Sicilia deve all’architetto panormita Giovanni Patricolo (restauratore e teorico del restauro ricostruttivo) che nel 1880 durante il restauro di S. Giovanni degli Eremiti, intervenendo sulle cupole trovò uno strato di copertura di colore rosso che egli scambiò per colore. Essendo un’autorità dell’epoca nel campo del restauro, decretò che i normanni coloravano le cupolette di rosso alla maniera araba. Così tinse di rosso tutte le cupole della città divenute oggi icone turistiche di Palermo e della Sicilia.  Si trattava di un semplice impasto di calce, sabbia e “coccio pesto” (un trito di laterizio), che gli arabi usavano come strato impermeabilizzante (Il coccio pesto ha potere idrofobo), che conferiva alle copertura un colore lievemente rosato.

Le nostre cupole sono perfettamente sferiche, senza tamburo d’imposta, grazie al cemento armato, e con il loro colore sembrano il detrusore di certe pompette lassative. Viceversa la loro incalzante presenza fa percepire l’opera come un vassoio di dolci dove spiccano tanti babà.

Visione questa che ha uno stretto legame lessicale con le chiese di culto ortodosso e con le tante cupole che le caratterizzano, rifacendosi al prototipo della Chiesa di S. Sofia ad Istanbul.

Il Babà ha una stretta attinenza con la forma delle cupole di S. Sofia. Ad esse era emotivamente legato il Re di Polonia e Duca di Lituania Stanisław Leszczyński (1677-1766). Ghiotto di dolci, ordinò al pasticciere di corte Nicolas Stohrer di inventare un nuovo dolce diverso dal tradizionale Gugelhupf, invitandolo ad ispirare la sua forma alle cupole della cattedrale turca.

Nacque così la forma del babà che in origine era un impasto assorbente imbibito di vino madera che venne chiamato: Babka Ponczowa. In seguito il nuovo dolce venne importato in Francia dalla figlia del re Maria Leszczyńska che sposò Luigi XV.  In Francia la ricetta fu modificata dal grande gastronomo Anthelme Brillat Savarin che inventò un nuovo punch ed aggiunse una farcitura di crema e macedonia di frutta, nacque il Babà Savarin. Presto fu il dolce prediletto da Maria Antonietta e dalla sorella Maria Carolina che sposò Ferdinando IV Borbone. Questa trasferitasi a Napoli mal si adattava ai dolci napoletani, (sfogliatelle e pastiere) che riteneva poco raffinati. Così costrinse Ferdinando ad inviare a Parigi alcuni pasticcieri napoletani con il compito di vagliare i dolci francesi. Tra i tanti importarono solo il Babà Saverin, che interpretarono subito nella versione partenopea: impasto soffice e alveolato imbibito con quella bagna al Rum che lo caratterizzerà per sempre, e per esaltare la forma lucidarono la caratteristica cupola con una glassa di marmellata.

Solo questa lettura può rendere dolce quel grigiore affastellato di bolle rosse aliene, intriso di segni e simboli confusi che raccontano in modo grottesco altre identità e che rappresentano l’incipit di un provincialismo estetico che ha censurato ogni identità con l’enfasi eclatante di un esotico improbabile.

Un’estetica mendace, fatta di falsi di falsi. Il falso che diventa identità.

Carmelo Celona

15.03.2020

 

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