Le architetture della globalizzazione, Involucri impermeabili all’identità dei luoghi
Il senso di solitudine e di smarrimento ci coglie quando non abbiamo riferimenti e oggetti fisici che richiamano la nostra identità, il nostro passato, che ci consolano evocando i ricordi.
L’architettura è un grande elemento evocatore, personale e collettivo, perché definisce gli spazi urbani e li rende luoghi riconoscibili, distinguibili, insomma li connota.
Se queste connotazioni sono di buona qualità estetica e culturale, armoniose ed equilibrate, chi li abita, chi vi nasce, chi è costretto a viverli facilmente s’identifica in essi e comincerà a sentirli suoi, li eleggerà simbolo della sua appartenenza al luogo, gli presterà attenzione, li curerà e si adopererà per valorizzarli (Piazza della Signoria a Firenze o Piazza di San Pietro a Roma sono luoghi che attivano nei fiorentini e nei romani forti processi d’identificazione). Viceversa se questa connotazione è disarmonica, degradante e senza riferimenti culturali, chi vive o è costretto a vivere in luoghi siffatti farà fatica e non attiverà alcun processo d’identificazione, anzi, chi vive i luoghi nel degrado, tranne rari esempi di resilienza (vedi il caso del Cavaliere Cammarata a Maregrosso), d’istinto e portato a disconoscerli, a violarli, a non prestargli cura e attenzione, ad aggiungere degrado al degrado.
Da molto tempo si assiste ad una progressiva sottrazione dell’identità simbolica delle città. Esse stanno perdendo via via le loro caratterizzazioni specifiche, conquistate da aliene caratterizzazioni architettoniche, soprattutto nelle nuove espansioni (spesso anche nei centri storici), cioè in quelle aree che avrebbero dovuto essere o che saranno i centri storici di domani. Questo fenomeno dipende molto dalla dilagante diffusione di certe architetture che si caratterizzano ovunque per i loro lessici omologati e omologanti, per i loro linguaggi la cui cifra è caratterizzata da un’assoluta povertà espressiva. Sono architetture dalla semantica priva di note specifiche e di riferimenti gerarchici.
La globalizzazione ha generato i suoi linguaggi architettonici, autentici interpreti di questa categoria. Organismi edilizi che ne plasticizzano in modo icastico i significati. Si tratta di un’architettura senza simboli, la cui localizzazione sul territorio è di solito poco ergonomica ed ultronea al contesto: un’invasione aliena. Sono architetture che esercitano il ruolo di veri e propri forzanti attrattori antropici che impongono sacrificio a chi è indotto a fruirli. Si tratta d’involucri che non trasmettono mai l’idea della loro funzione. Linguaggi che non anticipano la loro destinazione, il loro uso, che non esternano in modo esplicito la funzione che in essi si svolge. Gli edifici della postmodernità sono omologati: uffici, residenze, palazzi istituzionali, tribunali, ecc.., sono tutti caratterizzati da un magma linguistico carente di simboli.
Sono architetture che inducono frustrazioni inconsce a chi le vive, proprio per la mancanza di espressioni simboliche. All’interno dei loro involucri amorfi ci si può trovare, parimenti, una caserma militare come un placido condominio, gli uffici di un ministero come una fabbrica di mattonelle. E nulla da fuori accenna a queste specificità. Sono strutture edilizie non specializzate, i loro interni sono flessibili adattabili ad ogni cambio di destinazione, una flessibilità funzionale alla massimizzazione della rendita fondiaria. Sono la lucida metafora plastica della flessibilità sociale, della flessibilità del lavoro, che impone il neoliberismo. Invece, il simbolo è importante per la psiche umana, toglie forza agli effetti perniciosi dell’omologazione poiché alimenta le emozioni che si vivono negli spazi modellati dall’architettura, evoca la memoria e attiva quei processi d’identificazione di cui si è detto in precedenza, determinando Genius loci e carattere collettivo.
Queste architetture, invece, presentano un’assenza inquietante di simboli, sono un magma linguistico inespressivo che non trasmette più significati e significanti identitari o di senso. Una scuola, un ospedale, ufficio postale, sono, tra loro, indistinguibili. In queste opere si confondono i segni, non si percepisce la loro identità, non si afferra la loro funzione, non s’intuisce il loro scopo sociale. Esse negano la loro appartenenza a qualsiasi categoria facilmente riconoscibile o riconducibile a un codice comune di significati e significanti appartenenti al territorio. Non hanno codici che possono essere compresi o comprensibili (nel senso latino del termine “comprehendĕre”: prendere con sé assorbire, abbracciare, racchiudere, adottare, prima ancora che capire).
Ovunque si è diffusa un’architettura amorfa, anonima, uniforme, insipida, senza identità, senza carattere, inteso proprio senza caratteristiche, cioè senza connotati riconoscibili. Senza quei particolari architettonici, repertori stilistici, che da sempre ci aiutano a distinguere gli stili architettonici (Il rosone dello stile romanico; l’arco rampante dello stile gotico; il colpo di frustra dello stile liberty; le superfici schiette del purismo, ecc.), quegli elementi che ci fanno leggere l’architettura e i suoi simboli come i connotati (capelli ricci e pelle scura dei popoli africani, capelli biondi e occhi azzurri dei popoli nordici, bassa statura e occhi a mandorla dei popoli asiatici, ecc.) ci aiutano a distinguere l’appartenenza degli uomini alle varie etnie.
Ovunque, in ogni città, sorgono architetture senza identità. Sono le architetture delle pareti vetrate. Le architetture a specchio. Sono architetture che non comunicano con l’esterno. Sono edifici impermeabili, espulsivi, riflettenti. Architetture che non assorbono il Genius loci e che non dialogano con il contesto che le accoglie. Le loro facciate riflettono l’ambiente circostante restando neutrali, quasi a volere prendere le distanze con quanto le circonda, come quelli che non vogliono avere a che fare con il dirimpettaio e lo manifestano attivando dispositivi di distinzione e di allontanamento. Sono come quel nuovo vicino di casa che quando ci incontra non ci saluta, altero, tira dritto manifestando chiaramente l’intenzione di non voler avere rapporti umani. Lui non ha ereditato l’appartamento dai genitori, non ha vissuto il cortile quando era bambino, lui è nuovo, lui è un nuovo acquirente, lui non viene mai alle riunioni di condominio, lui, semmai, scrive direttamente all’amministratore, lui formalizza i rapporti di vicinato e rivendica solo i suoi diritti citando con proprietà leguleia la norma di legge che glieli riconosce.
Queste sono architetture sempre nocive ai luoghi in cui s’insediano. Se l’ambiente e degradato amplificano il degrado, se l’ambiente è bello si vestono malamente della sua bellezza deformandola in modo grottesco sulle loro superfici riflettenti a seconda della luce e dell’ora della giornata, praticamente la scimmiottano e la ridicolizzano. Hanno la dirompente forza di rendere irreali realtà urbane secolari (basti pensare a quel che sarebbe un palazzo a specchi davanti al Colosseo: la via dei Fori Imperiali diverrebbe una marmellata di riflessi di frammenti scomposti, un blob psichedelico di realtà e antichità).
Sono come quelle persone che indossano gli occhiali da sole per nascondere gli occhi, l’identità, l’anima. Impedendo a chiunque d’indagare la loro fisiognomica, giacché gli occhiali a specchio riflettono chi guarda. Sono edifici mimetici, architetture che si nascondono, riflettendo pienamente la categoria di pensiero che li ha concepiti: una categoria basata sulla frode (quella dell’aziendalismo, della commercializzazione, del marketing, delle banche, ecc.. ). Comunque sono espressione di una categoria che ha qualcosa da nascondere. Fanno tornare alla mente Franco Battiato che cantava: c’è chi si mette gli occhiali da sole per avere più carisma e sintomatico mistero.
Sono architetture che dissimulano, che non raccontano la verità. Sono le architetture della post-verità. Sono la plasticizzazione di quella categoria di pensiero che non vede la verità come un valore ma come uno strumento flessibile da adattare a seconda dello scopo.
Carmelo Celona
29.01.2020
Di specchi e architetture che dissimulano. Che non raccontano la verità (letteraemme.it)