Tortorici: città ribelle che si riscatta dalla schiavitù feudale.
La leggenda riferisce di una principessa di nome Orice, esule dalla sua Cartaginese occupata dagli arabi tra il 695 e il 698, che ripara sui Nebrodi e fonda la città. Ma l’insediamento urbano è molto antecedente all’epoca cui fa riferimento la leggenda. L‘abitato che sorge sulla rocca acclive dell’attuale Tortorici ha certamente più lontane origini. Fu da sempre luogo strategico ai cui piedi convergevano quattro bacini (Un tempo i fiumi erano le uniche strade che consentivano di valicare i rilievi della Sicilia) e Tortorici era una sorta di crocevia. In epoca Romana, sicuramente fu importante punto di posta: una Staziones e/o un Mansiones romana.
La struttura urbana attuale si presenta con un nucleo originale fitto dall’impianto inequivocabilmente arabo a giudicare dalla struttura policertica: un circuito murario di matrice araba, molto ricorrente in Sicilia caratterizzato da una fitta e labirintica trama di vaneddì e da una articolata massa architettonica dal lampante significante arabo. Un centro storico che polarizza una costellazione di borgate, settantadue, ognuna con la propria identità formale e spesso culturale, dove capita, da un borgo all’altro, di sentire idiomi diversi. Un magnifico territorio che esprime ovunque una marcata specificità.
Le prime fonti certe risalgono al XIV-XV. Epoca che ha segnato il destinato di questo luogo e ha definito il carattere della comunità. Nel 1600 a Tortorici avvennero due trasformazioni epocali: una sociale ed una fisica. La prima dovuta al passaggio da terra di feudo a città demaniale. La seconda causata da una devastante alluvione avvenuta nel 1682.
Il Riscatto
Già dal 1580 il popolo inizio la sua ribellione contro le angherie del barone Federico Moncada che esercitava in modo feroce il Mero e Misto Imperio: il diritto non solo su terre e beni immobili, ma anche sulle persone, amministrando a sua discrezione autorità di polizia e di giustizia civile e penale. Che nei fatti si traduceva nel diritto di vita e di morte che egli praticava attraverso i suoi campieri e gabellotti, visto che risedeva costantemente in Palermo.
Davanti a questi soprusi la città è il contado insorsero. Le rivolte si susseguirono con periodicità costante fino al 1623, anno in cui la comunità ottenne il definitivo Riscatto dalla Baronia. Le dure lotte furono affiancate da una impensabile vertenza giudiziaria. Il 04 giugno del 1583 i tortoriciani ricorsero, addirittura, alla Regia Gran Corte, denunciando il barone despota e chiedendo di essere integrati nel Regio Demanio. Nel 1590 ottennero quanto richiesto a condizione che pagassero una cauzione al Re. Insomma, se volevano la libertà avrebbero dovuto comprarla. Intanto il furbo Moncada cedette le terre al barone Mastrilli, il quale incurante della sentenza prese possesso del feudo e strutturò una nuova baronia. Scoppiarono nuove rivolte e fu avanzato un ulteriore ricorso alla Gran Corte che nel 1598 con sentenza inappellabile dichiarò lo Jure Retractus: Tortorici divenne definitivamente Città Regia, impegnandosi al pagamento di una somma di 12.000 scudi, da versare al Re: un Riscatto che avrebbe dovuto risarcire i baroni e garantire la Corona.
Ma i baroni avvalendosi delle immaginabili compiacenze amministrative e giuridiche riuscirono a tardare il pagamento del Riscatto e la messa in possesso della città ai cittadini fino al 1623. Solo da quell’anno i tortoriciani furono liberi dal giogo della baronia, non senza difficoltà e sacrifici. Il più grande ostacolo fu reperire l’ingente somma che secondo l’ultima sentenza doveva essere versata al Re entro un anno. Nessuna Banca fu disposta a prestare quel denaro. Così ricorsero ad un losco finanziere genovese, tale Camillo Pallavicino, l’unico che si dichiarò disponibile a fare credito.
Un popolo sotto usura
Chi era Camillo Pallavicino? Un usuraio che faceva il prete, o meglio un prete che faceva l’usuraio. Un capitalista genovese che sbarcato a Palermo per affari, ebbe una strana crisi mistica e prese i voti. Un personaggio che lo storico Sebastiano Franchina così definisce: “Usuraio d’istinto e di professione, perciò convinto che potessero coesistere in un uomo il genio dello strozzinaggio senza limiti ed il pio desiderio di santificarsi”. Con questi la città, il 6 maggio del 1628, fu costretta a contrarre un mutuo intriso di tantissime salvaguardie capestro. Ma conoscendo il fatto loro i tortoriciani non si curarono dei termini d’usura, si rimboccarono le maniche e dettero prova della loro grande forza comunitaria. Si avviò così una straordinaria rinascita: le terre cominciarono a produrre grani speciali e i mulini lavorano alacremente. Si cominciò a produrre e commercializzare castagne, uva, nocciole, gelsi e lino. Con il lino nacquero alcun industrie tessili. Presto la pastorizia e l’artigianato divennero fiorenti. Si cominciò a produrre ferro battuto di alta qualità, argento e stagno. Molte furono le falegnamerie che lavoravano il pregiato legno dei boschi. Sorsero fabbriche di cera e candele e si avviò la produzione della famosa acqua di rosa: prodotti raffinati destinati ai mercati nazionali e internazionali. Forse dall’esigenza di armarsi per difendere la libertà conquistata nacquero anche fabbriche di polvere da sparo, di archibugi e di scopette. Tortorici si specializzò nella fusione del bronzo, dando vita alla più fiorente delle industrie: la fabbrica delle Campane. Le Campane tortoriciane sono rinomate ancora oggi in tutta la Sicilia e in Calabria, dove non vi è chiesa che non vanti le campane di Tortorici.
La rinascita non fu solo economica, spinta dal bisogno di fare economie per onorare il debito, ma il riscatto fu soprattutto civile. Grazie ad una nuova evoluta visione sociale Tortorici ebbe strutture assistenziali notevoli come: il “Rabaco dei poveri “; l’”Hospedale pauperum”; il Monte di Pietà; etc.. Questa operosità fu premiata, e Tortorici Città Reale venne decorata con i titoli “Victoriosa”, “Fidelis” e “Amata”. I suoi rappresentanti entrarono a far parte del braccio demaniale del Parlamento Siciliano. La città divenne Capo Comarca: una sorta di Capoluogo di Provincia dell’epoca. Con questo titolo presidiava le terre di: Ucria, Raccuia, Sinagra, Naso, Castania, San Salvatore, Galati, Longi, Frazzanò, Mirto, Caprileone, San Marco, Alcara, Militello.
La Pittima
I tortoriciani sentivano forte la consapevolezza che onorare il debito era conditio sine qua non per mantenere la libertà dalla sottomissione feudale. Ciò li aiutò a sviluppare nuovi forti valori comuni che presto diventano valori culturali che ormai identificano il loro carattere, come: la serietà professionale, la capacità applicativa fuori dal comune, l’alta soglia di sopportazione del sacrificio, l’autodeterminazione, l’affidabilità. Soprattutto quella nell’onorare i debiti. Così tra le tante nuove figure professionali nate da quella grande trasformazione sociale si registra anche quella della Pittima, unica in Sicilia, verosimilmente introdotta dal Pallavicino.
La Pittima era un soggetto pagato dai creditori per ricordare in modo costante e ossessivo il debito contratto, soprattutto in prossimità della scadenza, sollecitando pubblicamente il debitore fino a provocandogli imbarazzo. La professione della Pittima fu tipica delle repubbliche marinare di Venezia e di Genova, guarda caso. A Genova, la Pittima aveva il compito di pedinare il debitore fino a quando non saldava il conto al creditore, dal quale ovviamente riceveva una percentuale. La figura e magistralmente cantata da Fabrizio De Andre nella sua opera musicale “Creuza de ma”.
La Pittima a Tortorici assunse un ruolo socio-morale. Fu uno strumento di deterrenza per affermare un valore essenziale al mantenimento della libertà, quello di onorare i debiti.
Il credito doveva essere difeso nel buon nome del Riscatto. E per questo che a Tortorici si trova un’altra singolarità: La Pietra della Pittima, l’equivalente della Pietra della Vergogna che riscontriamo a Genova a Venezia e in alcune città commerciali del nord Italia. Si tratta di una lastra di pietra dove colui che non riusciva ad onorare i debiti, incalzato dalla Pittima, era costretto a denudarsi le terga e sbatterle pubblicamente per tre volte sulla pietra. Solo così i suoi creditori non potevano più vantare il debito a discapito della sua onorabilità e affidabilità. Un’autentica gogna, una vera è propria esecuzione pubblica che annientava la dignità dell’insolvente e decretava la morte civile per i falliti! Da qui deriva il modo di dire: “restare con il culo per terra”, “calarsi le braghe”, etc..
Il Diluvio
La prosperità della Tortorici riscattata fu breve. Nel 1682, arrivò una devastante alluvione che distrusse la città. L’acqua caduta in poche ore, raccolta dai bacini limitrofi, fu talmente tanta che convogliando nel punto in cui i 4 fiumi si uniscono in uno e si avviano verso il mare, essa stessa fece da tappo sollevandosi e risalendo a ritroso invadendo l’abitato: “U ciumi, unni avìa a jiri pi pinninu, Jìa pi muntata, e facìa munti ‘n chianu, Fici di chiazza,e chiazza lu caminu”.
Questo disastro compromise seriamente tutta la capacità produttiva di questo popolo che aveva osato pagarsi la libertà puntando solo sulle proprie capacità resilienti, rivendicando il diritto di autogestire le proprie risorse naturali. Così venne meno la possibilità di pagare il debito. Inutili furono i tentativi di transigere con il nuovo titolare del credito: il “Monte di prestito e pegni Pallavicino” gestito dai Frati Filippini della Congregazione di Carità di Palermo, ai quali il Pallavicino aveva devoluto ogni suo bene. I Frati Filippini furono inflessibili, nonostante la tragedia, pretesero comunque l’impossibile pagamento. Quindi si appropriarono del feudo che rivendettero cinicamente alla famiglia Moncada, i quali non mollarono la baronia nemmeno dopo le leggi anti feudali del 1812, resistendo di giudizio in giudizio fine al 1935.
Una brutta storia comune a tutta la Sicilia per l’ordinaria sottomissione di un popolo ma rara per la riscossa del medesimo che non si piega ai soprusi e alle angherie dei Gattopardi: quel gruppo sparuto di uomini che per secoli e secoli ha tenuto e ancora tiene in una schiavitù infinita la popolazione isolana.
I tortoriciani popolo ribelle o semplicemente fiero e dignitoso? Certamente alacre, reattivo e capace. Un popolo che ha dimostrato alle altre comunità, che viceversa sono rimaste sottomesse al giogo della baronia, che un popolo se vuole può alzarsi e combattere per la libertà e la dignità collettiva. Basta fare fronte comune. Il dividi et impera con i tortoriciani non ha funzionato!
In quell’epoca di Vicerè spagnoli i tortoriciani hanno dimostrato che “Il pueblo unido jamas sera vencido”, e non ci sono usurai, preti e baroni che tengono! ……fino a quando non ci si mette il destino con le alluvioni, i terremoti, etc.
Spesso le catastrofi sono fenomeni naturali che favoriscono la cattiveria degli uomini… sarà naturale pure questo!?
Carmelo Celona
19.11.2019
Tortorici, viaggio nella città ribelle – Blog (messinatoday.it)