Il borgo antico di Castroreale: uno scrigno di significanti arabi e significati aragonesi
Il borgo antico di Castroreale sorge disteso lungo i due bracci del crinale del colle Torace. Una piccola rocca, dei ponti Peloritani, ai cui fianchi scorrono, il fiume Patrì, ad ovest, e il fiume Longano, ad est. Il borgo si affaccia sul mar tirreno dominando ogni dettaglio delle Eolie, della penisola di Milazzo, dell’istmo di Marinello e della “mite” Tindari. Da Castroreale le “isole dolci del dio” dei venti, sembrano galleggiare tra mare e nuvole e lo sguardo va oltre, navigando verso la penisola di Elea, verso l’antica Paestum.
Castroreale, Castrum Regale: Castello del Re. Il toponimo si deve a Federico III d’Aragona, che riconoscendo la sua posizione strategica (gli fu molto utile per scorgere in anticipo le incursioni delle flotte angioine) la nominò Città Demaniale, ordinando nel 1324 l’erezione di un Castello Reale dove spesso soggiornava. Secondo i libri di carta questo fu il momento fondativo della città. E da quel momento segue tutta una narrazione ufficiale che racconta di spagnoli, sabaudi, austriaci, borbonici, piemontesi fino all’attuale autonomia repubblicana. Ma a noi questo libro di pietra fatto di quiete urbana e di qualità umana ci racconta altro. La sua massa architettonica, fitta e affastellata, quasi sdrucciola, con le sue strade, che, viste dall’alto, ricalcano l’antico impianto arabo e si dipanano come lunghi filamenti ramificati che ricamano la sommità cornuta del monte sul quale si adagia, ci narrano storie che non abbiamo trovato nelle fonti ufficiali. Ci dicono di vestigia di un vecchio porto di epoca romana in prossimità della foce del fiume Patrì, che oggi affiorano tra un moderno abitato e la riva del fiume medesimo, in località Portosalvo. Un fiorente porto fluviale attorno al quale in origine abitavano i castrensi e che furono costretti a lasciare a causa di una grave esondazione che distrusse porto e abitato costringendoli a ripetute migrazioni nell’entro terra in cerca di sicurezza e risorse alimentari certe. Per avere un’altra città, forse, dovettero aspettare gli arabi tecnologizzati con i quali scalarono l’alto colle Torace, per fondare sul quel curvo crinale un centro abitato confortevole. Gli Arabi sapevano catturare l’acqua piovana nelle loro case cisterne (damusi) e su quel colle costruirono un raffinato sistema di raccolta (i catusi) di cui ancora si trova suggestiva traccia in quei cunicoli che attraversano la città e si collegano con i fondi delle abitazioni. Poi con le loro tecniche di irrigazione e di coltivazione resero fiorenti le campagne. L’antica Castroreale era una lussureggiante città araba, laboriosa e laica. Con il Castello posto in posizione dominante rispetto al labirintico abitato, con le moschee, i minareti, le madrase (scuole), i bagni, etc… Insomma, una delle tante tipiche città arabe del mediterraneo e della Sicilia del IX e X secolo d.c.. A Castroreale, come in tutta la Sicilia, della città araba non resta nulla. Tutto eliminato dai Normanni e dagli Svevi, esecutori militari del furore strategico della Chiesa cristiana, il cui obiettivo era che non restasse alcuna traccia dell’Islam, tollerante ed emancipato. Ma, visitando il borgo si è, di continuo, attirati da inaspettati significanti arabi, tracce, segnali che disorientano il visitatore. Lungo le strade, negli edifici, nelle coperture delle chiese, nella concezione degli spazi urbani, ovunque, stilemi e segni arabi s’impongono alla nostra attenzione. Come se un genius loci ribelle volesse dirci: guarda che noi ci siamo stati, anche se ci hanno cancellato per non doverci raccontare. Il Castello di Federico III sorge sui ruderi del Castello arabo distrutto dai Normanni. L’arco dell’antica Sinagoga, superstite alla cacciata degli ebrei dal borgo, è un arco arabo. Altre tracce ci dicono che la sinagoga sorgeva dove prima vi era una moschea. Il singolare sacrato affiancato alla cattedrale, che predilige l’osservazione strategica a discapito della socializzazione dei fedeli è tipico di certe città arabe (città chiuse, arroccate, inespugnabili con un balcone di vedetta). E poi le cupole rosate che emergono solenni dalla massa architettonica: quella elegante della Chiesa della Candelora e quella della Chiesa del SS. Salvatore. Questi due inconsueti elementi ci raccontano di una raffinata tradizione muratoria (importata in Sicilia dagli arabi) che si impose nelle fabbriche del culto cristiano. Le cupole rosate sono la cifra distintiva più raffinata del borgo. Sono un pregevole elemento di unicità. Un marchio arabo, che si è fatto archetipo. Un archetipo così forte che quando la calotta della cupola rosata del S.S. Salvatore è crollata, non essendoci più le abilità artigiane per ricostruirla, invece di abbatterla venne riparata, sovrapponendo, in chiave, un’improbabile raggera di tegole. Un gesto commovente, espressione del tentativo estremo di conservare, a tutti i costi, una forma che si riteneva preziosa, una forma che si sentiva essere identitaria. Oggi quella cupola rattoppata è uno degli elementi architettonici più raffinati e pregevoli del patrimonio artistico e culturale del borgo, sicuramente il più caratteristico, certamente il più poetico.
Unici ed inimitabili i Biscotti della Badessa e il Riso Nero. I primi (prodotti in origine dal convento delle suore di clausura) caratterizzati da un sapiente insieme di spezie aromatiche (cannella, chiodi di garofano e finocchietto selvatico) che nobilita e specializza una normale pasta brioche. Il secondo un gustosissimo e prelibato risotto dolce, color nero di seppia. Questa particolarità cromatica è dovuto ad una speciale tostatura e abbrustolimento di mandorle che insieme alla cannella e altre spezie ne costituiscono gli ingredienti. Questo riso probabilmente si deve agli arabi, come agli arabi si deve la millenaria presenza di una comunità ebraica (furono loro ad insediare in Sicilia massicce comunità giudaiche provenienti dall’area arabo-magrebina). Una comunità che ebbe per secoli un ruolo preminente nella struttura sociale della città, al punto che, dopo L’Editto di Isabella di Castiglia del 1492 che espulse gli ebrei dai domini spagnoli, molti di loro, ebrei ortodossi, si convertirono al cristianesimo, rischiando il tribunale dell’Inquisizione pur di continuare a gestire la loro grande mole d’affari centrata sul governo di gran parte dell’economia agraria. Loro era la gestione del Monte di Pietà, oggi Palazzo Peculio, sede del Comune. Di ciò parla la fontana che si trova all’ingresso della piazza antistate al Municipio (un tempo ad esso addossata) nella cui cornice decorata con inequivocabili simboli giudaici è scolpito, in latino, un distico elegiaco che dice: “Qui i nostri avi costruirono il Monte di Pietà. Quello vi tolga la fame quest’acqua vi possa dissetare”. Di questa falsa conversione ci parlano alcune cantine delle case dell’antico Ghetto, nella zona est del borgo, nell’area che si affaccia sul Longano, dove ancor oggi vi sono le tracce di piccole sinagoghe clandestine.
Castroreale è un luogo, incantato, dove ad ogni angolo appaiono miraggi che ci parlano del passato, incantesimi che evocano moschee e minareti, dove si sente l’odore e si gusta il sapore di grandi civiltà pregresse.
Carmelo Celona
05.11.2019