Rodì, il segno della grande storia e la palingenesi di un’architettura bio-ecologica

Rodì Milici, amministrativamente è un comune della provincia di Messina, nei fatti territoriali è composto da due località distinte e relativamente distanti: Milici e Rodì.  Quest’ultima si distende su una sella orografica che consente di attraversare una ramificazione del rilievo del Monti Peloritani che volge verso il Mar Tirreno, passando dal fiume Patrì al fiume Mazzarrà. Il piccolo borgo presenta un nucleo urbano d’antica fondazione che ostenta un antico blasone: la presenza di un segno di notevole valore storico, artistico e documentario che la distingue e la eleva rispetto ai borghi vicinori, raccontando una storia gloriosa.

Si tratta di una cubola rosata di marca bizantina che deve il suo colore ad un rimaneggiamento del sistema di impermeabilizzazione con coccio pesto, tecnica araba adottata dai Normanni. Questo segno di grande pregio emerge come unico elemento integro che testimonia la preesistenza di una struttura conventuale probabilmente basiliana, di una chiesa e di un piccolo abitato, seppelliti dall’alluvione del 1582.

Singolare è anche il toponimo: Rodì. Omonimo dell’isola greca del meraviglioso Colosso accentato alla francese. Esso affonda le sui radici nelle gesta dell’Ordine Cavalleresco degli Ospedalieri detti anche Cavalieri di Rodi o Cavalieri di Malta, monaci benedettini dell’Hospitale di San Giovanni in Gerusalemme in armi per fornire ospitalità e prestare assistenza medica ai pellegrini in terra santa. Dopo la perdita definitiva di Gerusalemme da parte dei cristiani, invece di tornare a Roma, ripararono a Cipro da dove mossero, nel 1309, per occupare l’isola di Rodi, dominandola per oltre due secoli, periodo in cui furono una delle forze militari più efficaci del Mediterraneo. Nel 1522, scacciati dai musulmani, ripararono alla volta di Messina, per trovare asilo nel Gran Priorato locale: una abazia benedettina, ubicata dove sorge il Palazzo della Prefettura (ciò spiega l’intitolazione della strada che lo costeggia: “via Gran Priorato”). Giunsero in riva allo Stretto, nel 1523, molto malconci: tanti di loro erano asociali, appestati o malati. Così per evitare che in città si potessero diffondere epidemie o disordini furono dispersi nella provincia. Molti si stanziarono nell’area dell’attuale Rodì che per un breve periodo fu sede dell’ordine di Cavalieri di Rodi. Ancora oggi restano forti i segni di questa permanenza che confermano ampiamente il dato storico, non ultimo lo stemma comunale che unisce il simbolo della operosità di Milici con quello di Rodì rappresentato solo da una Croce di Malta.

Oggi visitando il centro storico, intriso di segni delle vicende narrate, ci si imbatte anche in una moderna singolare operazione di sostituzione edilizia che restituisce il volume preesistente di una piccola cellula abitativa andata diruta con una innovativa struttura in legno.

 

Il recupero delle architetture vernacolari

Nel dibattito sul recupero del patrimonio architettonico di nuclei urbani siciliani d’antica fondazione è problema complesso e cogente quello della ricostruzione dei volumi ormai ridotti in vestigia o allo stato di rudere. Come restituire l’involucro originale di antiche cellule abitative le cui murature in pietrame, spesso a sacco e poco coese, non posso garantire i necessari standard strutturali di sicurezza che le vigenti leggi sull’edilizia antisismica impongono come necessario requisito inderogabile?

La pratica corrente sbriga velocemente la questione, ove non ci sono particolari vincoli diretti o urbanistici, con l’applicazione del cemento armato, che irrompe in questi esili contesti urbani frantumandone l’equilibrio ecologico e la delicata espressività, compromettendo definitivamente le già fragili identità formali. Così i banali telai in cemento armato hanno il sopravvento insieme ai solai misti e ai mattoni forati di tompagno: poi tutto si ricopre d’intonaco, se le risorse economiche lo consentano. Il resto lo fanno l’essenzialità degli infissi in alluminio, le tapparelle, le gronde ipertrofiche, le ringhiere banali. Tutti elementi che seppelliscono per sempre i fragili linguaggi vernacolari di poetiche cornici in pietra e le tenere impudicizie dei muri in pietrame a faccia vista, le più pregiate con qualche povero ricorso in mattoni, portando nell’oblio la magica precarietà degli affacci su mensole di ghisa, sfidanti da secoli la forza di gravità, su cui poggiano sottili marmi orizzontali, in un perfetto equilibrio di povertà di materiali.

Oggi con lo svilupparsi di nuove coscienze ambientaliste e naturaliste, fortemente stimolate dalle nuove tecnologie, avanzano le istanze di un nuovo ecologismo dell’architettura che può trovare una sua risposta anche nell’uso del legno strutturale, recuperando antiche sapienze ingegneristiche. Vi sono quadri normativi che contemplano la possibilità di rispondere alla sempre più crescente domanda di un’edilizia bio-sostenibile realizzata con materiali naturali.  Nell’ambito del recupero funzionale degli organismi architettonici vernacolari andati perduti, cui spesso non si riconosce nessun valore formale ed economico, per via della loro semplicità semantica, l’unica strada per un loro riuso sostenibile può essere quella di mettere a punto nuove tecniche di restituzione bio-ecologica sostenibile e far nascere nuove cifre stilistiche che dialoghino in armonia con le strutture preesistenti rimaste integre e con i loro contesti. Soprattutto in quegli ambiti dove ancora è superstite la traccia di storie minime di piccole civiltà arcaiche basate su equilibri naturali che stanno diventando sempre più difficili da decifrare e sempre più impalpabili per poterle mantenere all’attualità, sia pure con altra cifra ecologica.    Il ricorso al legno, materiale ecologico per eccellenza, in questi casi potrebbe essere una soluzione innovativa, sia per l’avanzata pratica tecnica, sia per definire i profili di una nuova espressività ecologica di una nuova architettura.  Ciò servirebbe a mettere un freno all’uso del cemento armato, là dove non è possibile, il restauro filologico delle preesistenze con snelli adeguamenti sismici. Là dove le murature non sono più recuperabili, invece del cemento, si può cominciare a pensare all’alternativa legno.

 

La palingenesi di una nuova architettura ecologica

L’intervento casualmente incontrato all’interno del centro storico di Rodì ha il valore di una segnalazione che ci fa riflettere su una concreta ed ecologia alternativa negli interventi di restituzione volumetrica in caso di crollo della struttura originale in pietra. Un’alternativa all’inserimento di strutture in c.a. e ai finti paramenti che simulano posticce case in pietra. L’intervento operato dagli ingegneri Salvatore Arlotta e Filippo Licandro, accenna concretamente ad una alternativa possibile alle pratiche edilizie correnti, il cui esito spesso risulta fatale in contesti così complessi e fragili come quello in cui ricade l’organismo in parola. La nuova soluzione risponde pienamente alle istanze di una architettura ecologia e bio-sostenibile: assicura staticità antisismica, confort, contenimento energetico, prestazioni ecologiche, sostenibilità ambientale, e abbatte i costi almeno della metà rispetto agli standard economici del cemento armato, dell’acciaio, della muratura ordinaria e di altre pratiche edilizie più evolute e innovative, quasi quadrando il cerchio.

Resta da risolvere tutto lo spettro dei linguaggi formali. Restano da sviluppare cifre stilistiche che interpretino i contenuti ontologici e tecnici di questa possibile nuova frontiera dell’architettura ecologica. Resta da declinare una cifra che strutturi una dignità formale distintiva rispetto al romantico stereotipo della casetta in legno, da cottage di montagna, da baita alpina, da rifugio della Forestale se non addirittura da casetta da parco per l’infanzia. Una cifra che sia il significante di un processo tecnico e formale evoluto, che interpreti una visione ecologica altra dell’architettura e del recupero delle preesistenze. Questo piccolo esempio di applicazione tecnica, perfettamente riuscito dal punto di vista funzionale, ha il sapore di un elemento palingenetico di quello che potrebbe essere un nuovo orizzonte della bioarchitettura.  Abbatte i costi in modo consistente rendendo accessibile il bene casa, rispetta l’ambiente, esprime contenuti ideologici di sostenibilità e ambientalismo, pratica il risparmio energetico, etc.. Tutti verbi contrari alle contaminazioni di materiali innaturali e speculativi, come il cemento, poco durevoli nel tempo e difficili da smaltire. Si fa latore di una palese denuncia dei pericoli del prosaicismo edilizio che là dove non trova più terreni vergini da cementificare aggredisce i piccoli centri storici arrecando danni irreversibili a secolari memorie e a millenari equilibri ecologici.

 

Carmelo Celona

08/09/2019

Dal cemento al legno, la rivoluzione “ecologica” di Rodì – Blog (messinatoday.it)