Messina: città dal mare negato
La censura del Mito e dell’Identità
Messina è una “città lunga”: una struttura urbana schiacciata sul mare dai Monti Peloritani, che conta circa 54 km di costa. Una delle città più a contatto con il mare della penisola, certamente la più bagnata dal mare della Sicilia.
Le altre grandi città isolane hanno coste di lunghezza molto inferiore: Palermo 28 km; Trapani 30 km; Marsala 25 km; Agrigento 15 Km; Siracusa 27; Catania 18. Nessuna di queste presenta uno sviluppo così intenso e continuo dell’abitato sulla costa. Su 55 km oltre 40 sono antropizzati senza soluzione di continuità. Praticamente 40 km di città che corre adiacente al mare. Una vera è propria città a diretto contatto con il mare! E’ invece no! Da Tremestieri fino a Capo Peloro, (la parte più pregiata dal punto di vista paesaggistico dei 54 km di costa, quella che si affaccia sul sublime scenario dello Stretto) il contatto diretto con il mare è materialmente impedito, in molti casi persino sottratto alla vista. Così come è in gran parte impedito l’accesso al Mare dal Mortelle a Ortoliuzzo, per via dei mancati accessi a mare.
Dal confine sud (Giampilieri) fino all’istmo della falce del porto il contatto con il mare, da oltre un secolo e mezzo è censurato dal rilevato ferroviario, da e per Catania e Palermo: una linea ferrata protetta che costituisce una barriera fisica invalicabile impedendo il contatto e la visione di uno dei più bei paesaggi marini del Mediterraneo. Dalla parte interna del rilevato ferroviario vige il degrado di quartieri baraccati, di ex zone industriali, di zone militari abbandonate, di scali ferroviari dismessi, di obsolescenze urbane di ogni genere. Paradigmatica è la zona di Maregrosso, il cui toponimo è un ossimoro: il mare è grosso ma non si vede, eppure da lì il punto di vista sul mare sarebbe un incanto.
Dal Porto, chiuso e inaccessibile, fino a Torre Faro si compulsa senza soluzione di continuità: fiere, gasometri, imbarcaderi, circoli, baby park, parcheggi, lidi, rimessaggi, kartodromi, alti muri di recinzione, archeologia industriale, piscine, etc.. Tutti elementi che costituiscono una vera e propria barriera che impedisce il contatto fisico con il mare. Tutti luoghi dalla forte identità perduta, contaminata, insultata. Luoghi un tempo a contatto con l’archetipo principe della città: lo Stretto. Luoghi blasonati oggi negletti, sudici, disordinati, depressi dal punto di vista civile e sociale prima ancora che fisico ed estetico.
Da tempo si parla della Via del Mare, verso sud, e verso nord di Affaccio al Mare, eufemisticamente chiamato Water Front: uno stucchevole anglicismo che spaccia come avveniristica la scontata realizzazione di un normale lungomare, rendendo chimerica la naturale restituzione alla città della sua più grande risorsa paesaggistica, facendo dimenticare quella che fu, ed è ancora, una ferale sottrazione: Messina è l’unica “città di mare” italiana che non ha un lungomare degno di questo nome. Il mare a Messina c’è ma non si vede, e là dove si vede non lo si può raggiungere. È sarà così per molto tempo ancora.
Sono state formulate molte soluzioni di qualificazione e rigenerazione urbana della costa finalizzate alla riconquista del mare e del suo paesaggio, ma spesso si sono prospettate e si prospettano ancora come l’ennesima speculazione ai danni di un territorio ormai troppo martoriato, di un tessuto urbano esausto e un tessuto sociale esangue. Atteggiamento che si ripete costante nella storia “moderna” della città. In quella città che un tempo vantava “il teatro a Mare”: La Palazzata, grande esempio di esaltazione del rapporto tra mare è città.
Dopo il 1908 ogni intervento sulla costa, a partire dal nefasto “Piano Borzì”, non ha mai tenuto conto del grande valore culturale di questo margine territoriale intriso di grandi suggestioni, insultandolo in modo irreversibile. Chi ha operato le scelte urbanistiche lungo la costa, nel passato remoto e nel passato recente, ha sempre girato le spalle alla bellezza, all’identità e al Mito, non riuscendo ad entrare in risonanza emotiva con esso.
Messina è stata trattata come una qualunque cittadina rivierasca, dove la linea di costa è il semplice confine tra un elemento solido e una massa liquida, un qualunque confine tra terra e mare. Disattendendo un lampate dato di fatto: a Messina la linea di costa rappresenta quel margine impalpabile che divide la storia dal mito: dai miti omerici di Ulisse e le Sirene e di Scilla e Cariddi; da quello leggendario di Colapesce; da quello epico di ‘Ndria Cambria, il protagonista dell’Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, uno dei più grandi capolavori letterari del novecento. Così su quel margine dal valore culturale universale impera il degrado, i non luoghi, l’obsolescenza, la disarmonia, l’abusivismo, la mancanza di programmazione, l’assenza di una visione strategica che costruisca il futuro.
E’ difficile rassegnarsi a questa grave sottrazione d’identità collettiva, alla mortificazione di un archetipo ridotto a folklore, ad una indebita appropriazione che priva la collettività messinese della fruizione armonica di quel mare che ha suggestionato la Storia. E’ difficile rassegnarsi all’idea di questo uso improprio di una costa dove sorgono località i cui toponimi raccontano meglio di qualsiasi descrizione, la sua bellezza paesaggistica. Località che da secoli si chiamano: Paradiso, Pace, Contemplazione. In località Paradiso, se si si riesce a raggiungere la battigia lasciandosi dietro le spalle tutta la parte antropica, che contamina la vista, si capisce chiaramente che per quel luogo non poteva esserci toponimo più appropriato.
Così ai messinesi è stato censurato l’accesso al Paradiso, inviandoli nella bolgia infernale dei carnai di Rometta, Portorosa, etc.: falansteri su un mare insipido senza Luntri che catturano pescespada, senza la Fata Morgana all’aurora, senza la luna che di notte si specchia su un lago circoscritto dalle coste illuminate. Un mare che di notte si perde nell’angoscia di un buio profondo.
Carmelo Celona
02/08/2019