Lo “Stupur Mundi” negato : panchine e forma mentis
L’architettura è un pensiero che prende forma. Un’idea che si plasticizza: l’architettura è la forma del pensiero. E’ un processo umano che prima formula l’idea, poi definisce la funzione, lo scopo, ed infine dà vita alla forma. L’architettura e tutti gli elementi fisici con i quali essa trasforma gli ambienti naturali in ambienti antropici (ambienti destinati specificatamente a funzioni più confortevoli ed ergonomiche per l’uomo, sia dal punto di vista del soddisfacimento delle sue esigenze biologiche che di quelle intellettuali ed emotive) rispondono sempre ad una forma mentis, sia essa la più complessa e sofisticata sia la più semplice e pragmatica: da quella aulica, solenne, filosofica e scientifica delle grandi opere d’arte a quella più amorfa e greve della speculazione edilizia o quella imbarazzante dell’incompetenza.
La forma dell’architettura e degli spazi pubblici da essa attrezzati e modellati è dunque la forma di un processo mentale, di un ragionamento, di una categoria di pensiero. Insomma è l’espressione icastica dell’animo, della mentalità, della cultura, della sensibilità estetica ed emotiva di chi la concepisce. Essendo l’architettura elemento tra i più stabili nel tempo che l’uomo realizza (vedi Colosseo e Partenone) essa condiziona inevitabilmente la cultura dei luoghi ove sorge e contribuisce fortemente a generare identità culturale e gusto estetico di chi in quei luoghi vive, nasce e muore.
Così uno spazio urbano diventa un’esperienza culturale che coinvolge tutti. Diventa strumento che incide sulla percezione subliminale e condiziona il senso estetico del fruitore orientandolo verso categorie di pensiero che possono essere: evolutive o regressive a secondo della qualità, della forma mentis di chi lo ha concepito.
Protagora sosteneva che “E’ l’uomo la misura di tutte le cose…di quelle che sono, perché sono e di quelle che non sono perché non sono”: il primo riferimento e alla dimensione fisica delle cose, il secondo a quella ideale e psichica. L’architettura è costituita da due fattori essenziali e complementari, mancando uno di essi non può dirsi architettura: la forma e la funzione. La forma è la trasformazione dello spazio, la modellazione degli elementi di cui è costituita. La funzione è l’utilità che da questa modellazione se ne trae.
Una buona architettura, sia che modelli spazi chiusi o che attrezzi e renda fruibili spazi aperti, deve garantire sempre alti livelli di compatibilità antropica: compatibilità antropometrica, spazi ed elementi a misura d’uomo e compatibilità antropologica spazi ed elementi adatti ad usi compatibili alle attività umane, da quelle pratiche a quelle intellettuali e psichiche. Senza una forma ergonomica l’architettura si trasforma in una scultura, viceversa se la sua forma non svolge una funzione culturale ecco che l’architettura si trasforma in un mero utensile.
Facciamo l’esempio di una panchina. Una panchina deve avere una forma compatibile con l’anatomia umana. Deve essere comoda, con un sistema sedile ergonomico e una spalliera accomodante. Insomma, una panchina non può essere solo bella, deve essere confortevole e riposante, ma queste caratteristiche non bastano. Una panchina deve essere collocata nella maniera più opportuna per essere usata, in modo da poter fruire dello spazio in cui è installata soddisfacendo esigenze psichiche e culturali e non solo fisiologiche (sedere e riposare), come godersi un bel panorama, la frescura degli alberi di una piazza o ammirare la bellezza di un monumento, diversamente sarebbe come immaginare le panche di una chiesa non rivolte verso l’altare.
Due luoghi dell’anima
Vi sono due posti magici e pieni di storia, tra i tanti della Sicilia, che sono verie propri archetipi dell’isola: il borgo medievale di Cefalù e Il “Castello Ursino” a Catania, simboli della Sicilia Normanna e Sveva. Luoghi comuni del Medio Evo siciliano. Luoghi pieni di magia, di storia, di mito. Luoghi in cui si sono stratificate lunghe narrazioni. Luoghi dove si è formata l’identità isolana, dove è possibile cogliere tutte le sfumature della bellezza della Sicilia. Luoghi dell’anima dove è impossibile non provare emozioni.
A Catania, in pieno centro storico, a poche centinaia di metri da piazza duomo, sorge “Castello Ursino“, un suggestivo castello svevo, fatto erigere da Federico II a partire dal 1239 su progetto dell’architetto Riccardo da Lentini. In origine fu una fortificazione di costa, una struttura difensiva concepita per contrastare le incursioni dal mare. A quel tempo era chiamato “Castrum Sinus” (castello sul golfo) da cui l’attuale nome di “Castello Ursino”.Il Maschio si stagliò sull’acqua, a difesa del porto di Catania, per oltre 400 anni, collegato con la terra ferma da un istmo, come il “Castello Maniace” a Siracusa e il “Castello Svevo” di Augusta. Nel 1669, una devastante eruzione dell’Etna (che ha cancellato 13 città e parte di Catania) giunse fino al mare arrestandosi solo davanti al fossato del Castello, circondandolo e facendo diventare terra ferma lo specchio di mare che dominava. L’opera è una delle più importanti architetture della Sicilia Sveva, dominata da uno dei re più illuminati e colti della Storia. Il Castello è l’espressione di uno dei periodi più fertili, dal punto di vista artistico e culturale, che l’isola ricordi. La sua forma e la sua concezione sono l’espressione plastica di un periodo storico dove in Sicilia fiorì una delle più floride correnti filosofico artistico letterarie di tutti i tempi: la Scuola Siciliana, che annovera letterati e poeti come Jacopo da Lentini, Odo e Guido delle Colonne, Pier delle Vigne, e quel Cielo d’Alcamo autore della famosa “Rosa fresca aulentissima“.
Oggi il castello è un museo civico. Lo scorso autunno ha ospitato il “Museo della Follia”, una rassegna di eventi espositivi di notevole valore culturale. Era fine ottobre, mi trovavo a Catania per visitare l’esposizione di alcune opere di Ligabue, allestita proprio al “Castello Ursino”. Era una mattina radiosa con un cielo azzurro accecante e nell’aria un tepore primaverile. Stavo avviandomi verso l’entrata, percorrendo l’antistante piazza, meta di turisti e di autoctoni, quando colgo la presenza di due panchine che l’arredano. Qualcosa in loro mi disturba, la loro visione arresta il mio incedere verso il Castello, come una folgorazione improvvisa, come una scossa elettrica, agiscono sul mio istinto come un elettroshock. Cosa vedo? L’orientamento delle panchine nega la grande opera voluta dallo “Stupor Mundi” (vedi foto n. 1). Il grande Federico II che ha destato e desta la meraviglia in tutto il mondo risulta totalmente indifferente a chi ha progettato e installato quelle panchine nella piazza antistante il Castello. Persino l’implacabile lava del vulcano si era arrestata ad ammirare la magnificenza di quest’opera, ma non il turpe progettista che con assoluto distacco emotivo, con freddezza pragmatica, forse mosso dal cinico prosaicismo corrente, ha imposto la sua insensibile forma mentis, secondo un processo mentale, che nonostante ogni sforzo, rimane oscuro, inspiegabile. Un mistero che comunque condiziona notevolmente il godimento di questo magistrale monumento. Chi è perché ha trasformato quelle panchine in elementi di negazione della bellezza, della Storia, dell’identità. Le panchine così orientate vietano categoricamente le emozioni che un’architettura così solenne può offrire all’anima di chi sosta in quello spazio urbano denominato toponomasticamente, “Piazza Federico II di Svevia”. Una piazza attrezzata di alberi e di aiuole il cui perimetro e tracciato da alte siepi di pitosforo.
La piazza in quel momento era allegramente popolata di turisti e di visitatori del monumento e della mostra. Tra questi scorgo una donna assorta che sta facendo uso di una di queste panchine costretta a volgere le spalle al monumento (vedi foto n. 2 e 3).
Indignato immortalo quel frangente con uno scatto del mio cellulare e dopo essermi accertato dell’efficace esito delle foto, corro dalla donna a chiedere la sua autorizzazione ad un’eventuale pubblicazione denuncia delle foto scattate e al contempo a domandarle quanto la mia curiosità mi suggeriva: perché sta seduta volgendo le spalle al Castello? Lei mi guarda basita, come se si destasse da una condizione aliena, e con tono rassegnato e perduto mi dice: “non lo so! mi sono seduta qua perché sono stanca, ho fatto tanta strada per essere qua. Da tempo studio i castelli federiciani, e questo castello per me è un castello molto studiato e spesso sognato. Ora finalmente sono qui. La sua visione, la sua storia, analoga a quella di “Castel del Monte”, m’incanta. Mi sono fermata prima di entrare, volevo guardarlo in ogni suo segno, in ogni sua pietra e perdermi nella sua architettura e prima ancora in questo cielo azzurro di un altro tempo. Ho visto questa panchina e mi sono seduta, ma mi trovo, senza un perché, con ilCastello alle spalle e di fronte una siepe molto vicina. Non ho spazio per guardare e respirare, sono incastrata. Provo disappunto, non sono a mio agio, sento i ragazzi giocare ma non li vedo, la siepe blocca il mio sguardo,…mi sento piccola. Sono seduta qui e, senza un perché, non posso guardarlo……perché’?” Apprendo in seguito che è pugliese, di Andria, ed è una studiosa che ha scritto dei testi su “Castel del Monte”, la più grande ed enigmatica opera di Federico II, quello che lei chiama il “Puer Apuliae” il piccolo di Puglia. “Castel del Monte” è l’opera che rappresenta la sintesi linguistica di un percorso architettonico che comincia con le Cattedrali Normanne della “Contea di Puglia”, che evolve e s’innova in Sicilia prima con lo stile Arabo Siculo Normanno delle Cattedrali di Cefalù e Monreale e con i Castelli Svevi di Catania, Siracusa e Agusta per poi tornare a concludersi in Puglia con quest’opera che è summa e mistero della grandezza culturale, artistica e scientifica di questo grande re.
Qualche giorno dopo mi trovavo a Cefalù, luogo colonizzato dai greci nel IV a.c. al quale dettero il nome di Kefaloidon (capo, testa) per via del suo promontorio che si distende sul mare come la testa di un guerriero addormentato. La città si sviluppa e assume l’attuale fisionomia in epoca normanna, quando sotto la grande rocca, alla cui sommità sorgeva il tempio pagano di Diana, fu realizzato il grande tempio cattolico degli Altavilla: la magnifica Cattedrale di Cefalù, attorno alla quale in seguito si svilupperà, fittamente, in quel poco spazio tra la rocca e il mare, un borgo medievale spontaneo: una massa architettonica affastellata a strapiombo sul mare come una falesia, di rara bellezza, quasi tutta orientata a nord ovest. Una forma urbana di elevatissimo valore estetico. Una struggente estetica del limite, che narra tutte le fasi del suo compimento, della formazione di un’identità ferrea e determinata, quasi a plasticizzare il carattere arcigno dei cefaludesi. La città si può ammirare anche dal mare grazie ad un breve braccio di terra che la protegge dal vento di maestrale fungendo da riparo per le barche dei pescatori. Da questo semplice molo si può godere l’intero corpo tufaceo, soprattutto quando, colpito dal sole del tramonto, diventa d’oro, trasformandosi in un’incantevole scrigno aureo che conserva secoli di storia e uno dei più grandi capolavori della pittura universale: il “Ritratto d’ignoto” di Antonello da Messina, esposto al museo civico “Mandralisca”.
Ebbene su quel molo, qualcuno con forma mentis diversa da chi ha orientato le panchine di “Castello Ursino”, ha installato delle semplici e confortevoli panchine, dal designer senza pretese, orientandole verso la magnificenza descritta, consegnando a chi sosta sul molo la bellezza sublime della borgo medievale al tramonto e la libertà di godere pienamente di dorate emozioni. (vedi foto n. 4) .
Spazi pubblici ed evoluzione culturale
Negli spazi urbani modellati e attrezzati dalle architetture prendono forma le emozioni. Emozioni positive e di benessere, individuali e collettive, come la gioia, l’esaltazione, la felicità, o emozioni negative come l’angoscia, il fastidio, il disagio psichico o la percezione della solitudine. La qualità delle emozioni è direttamente proporzionata alla qualità degli spazi urbani e da come questi vengono modellati, attrezzati, strutturati, plasmati. La qualità degli spazi urbani dipende molto da indispensabili qualità ergonomiche (compatibilità antropometriche) e da buone qualità culturali (compatibilità antropologiche). Più è alto il livello di queste qualità più efficaci sono gli stimoli emotivi sul benessere psichico di chi li vive. La mancanza di queste qualità negli spazi urbani viceversa genera disagi emotivi e fastidi psichici. Una buona qualità formale e un’alta compatibilità antropica degli spazi urbani non può lasciare insensibili.
Modellare e attrezzare bene e in modo ergonomico gli spazi urbani offre a chi li vive stimoli bioemotivi che possono avere una risultante percettiva che induce armonia biopsichica. La qualità culturale e formale degli spazi urbani è espressione della cultura di chi li produce. Essa traduce le dinamiche sociali in forme, e queste forme nel tempo assumono valore culturale e condizionano lo sviluppo mentale di chi vive quei luoghi, nelle quali, gioco forza, è costretto ad identificarsi. Come i senesi con “Piazza del Campo”, i napoletani con “Piazza Plebiscito”, i romani con ”Piazza di Spagna”, i veneziani con “Piazza San Marco” ecc..
Quindi la forma degli spazi modellati dall’architettura dipende molto dai valori etici e morali della società che li produce. Chi progetta e realizza spazi urbani detiene la facoltà di condizionarne l’evoluzione di intere comunità. Così il posizionamento delle panchine della piazza antistante il “Castello Ursino”e di quelle del porto di Cefalù ci dimostra come chi concepisce, progetta e realizza gli spazi pubblici può offrire, a chi li vive, bellezza, libertà, benessere ed emozioni o viceversa compiere un grave condizionamento psicologico e di regressione culturale e civile….. è questione di forma mentis!!!