La Torre Civica con l’orologio dell’Upim: tra Medio Evo e modernità
Quando nel V secolo d.c. cominciò il declino dell’antica Roma si ebbe una progressiva decadenza urbana. Le città non più amministrate e difese, oggetto di frequenti incursioni barbariche e depredazioni piratesche, divennero malsane. Era impossibile restare a vivere in quei luoghi senza esporsi al rischio di pestilenze, malattie, lordume e assenza di cibo. Così la gente ritornò alla vita rurale fuggendo nelle campagne dove avrebbe potuto trovare liberamente fonti di energia, cibo e materiali da costruzione.
Questo fenomeno ben presto fu organizzato dalla nuova chiesa cristiana che cominciò ad offrire ai romiti strutture fisiche organizzate e operative dove vivere in comunione: nacque così il Cenobio. In queste strutture si sviluppò un radicale nuovo sistema di vita: il Monachesimo. La città di pietra, l’Urbe, distrutta dal furore barbarico e dal fanatismo cristiano lasciò il posto alla Città Celeste: il Monastero.
Il Monastero fu una struttura autosufficiente: una vera e propria piccola città, ispirata al modello della “Gerusalemme Celeste” del libro dell’Apocalisse di Giovanni da Patmos e in seguito alla “Città di Dio” teorizzata da Agostino d’Ippona. Il Cenobio fu un’isola felice, di serenità, ordine e giustizia: un “Paradiso Claustralis” come amava definirlo Bernardo da Norcia. Un luogo dello spirito, della cultura, della scienza e della tecnologia. Nel Monastero si sviluppò una nuova struttura sociale basata su un’economia chiusa, autarchica: un’economia senza mercato, antitesi autentica del capitalismo. Il Cenobio fu una nuova città dove il Tempio divenne Basilica e la Piazza divenuta più intima, si trasformò in un silenzioso e placido Chiostro.
Questi nuovi luoghi esigevano una nuova organizzazione delle attività umane. Così fu concepita la Regola monastica. Un complesso di norme comportamentali che organizzarono i ritmi della nuova vita prevedendo nuovi sistemi di gestione del tempo civile come: l’orario di lavoro, la divisione della giornata in frazioni di tempo, il calendario, ecc… (concezioni che resteranno immutate fino ai giorni nostri). Il tutto scandito dai riti religiosi. Lo strumento con il quale applicare la Regola del tempo, prima con le sue campane e poi con l’orologio, fu il Campanile. (foto di un monastero con campanile)
La citta medievale e le torri dell’orologio
La città nel medio evo risorge sulle rovine dell’Urbe. Protetta da possenti cinte murarie quasi sempre erette sulle vestigia delle antiche mura romane. La sua origine risalire alla necessità sia dell’Abate (titolare del monastero) che del Feudatario (titolare del Castello) di avere un luogo protetto e localizzato in modo strategico dove poter scambiare in sicurezza beni e merci, prodotti nei loro possedimenti, con altri feudatari o con altri monasteri.
La città medievale all’inizio fu un mercato protetto da mura inespugnabili, mura al cui intero si situarono per primi gli edifici di rappresentanza del potere spirituale (la Chiesa e il Campanile) e del potere temporale (Il palazzo signorile e la torre civica).
Pian Piano questo spazio circoscritto si andò densificando di altre funzioni (residenze, botteghe, laboratori, tribunali, uffici, banchi, ecc..) è diventò città. Riadattando e rielaborando strutture, materiali e tipologie di epoca romana, sviluppando un nuovo linguaggio architettonico che fu la cifra stilistica di molte città medievali: lo stile romanico, cioè, alla maniera del classicismo romano.
La città medievale fu un luogo di pace assoluta finalizzata al benessere delle attività commerciali, prima ancora di quelle civili. Un luogo di quiete che tutti (cavalieri e alti prelati, artigiani e commercianti, banchieri e mercanti, burocrati e soldati) avevano l’interesse di non violare (come oggi si fa con la Svizzera).
Nel nuovo spazio urbano quasi inespugnabile le comunità laiche cominciano ad aggregarsi dando vita, al suo interno, a nuove istituzioni: nascono i Comuni. Nascono le consorterie delle arti e dei mestieri, degli artigiani, dei cavalieri, dei mercanti, ecc. Nascono le due piaghe della modernità: la borghesia e la burocrazia. Tutto questo fu la palingenesi di tutti i borghi medievali. E l’Urbe si trasformò in Civitas. E i Comuni cominciano a rivendicare la loro identità laica facendo nascere un nuovo sentimento di comunità. Nacque quello che noi oggi chiamiamo ”senso civico”. Nasce la categoria dei beni comuni, dei servizi comuni, degli spazi pubblici, ecc. Riemergono vecchi genius loci e se ne affermano di nuovi. Si sviluppano forti sensi di appartenenza alla comunità di riferimento e forti processi d’identificazioni con le città e le architetture che le popolano. L’elemento che qualifica le città è sempre la torre civica o il campanile, a secondo di quale potere ha più forza contrattuale nelle città, se quello della chiesa o quello della signoria..
La Civitas s’identifica con un elemento fisico nuovo, la Torre Civica, la torre municipale, sulla quale campeggia uno strumento nuovo che ha contribuito notevolmente al processo di laicizzazione in trattazione: l’Orologio Meccanico. (uno degli esempi più illustri è la Torre di Palazzo Vecchio che da secoli è l’archetipo di Firenze). La Torre Civica con l’orologio diventa il significante della laicità. Un forte segno d’identificazione sociale. Così presto anche i Campanili delle chiese si dotarono di orologi meccanici facendosi paradossalmente latori del nuovo uso prosaico del tempo. Questo ci deve ricordare che l’orologio meccanico su un campanile di una chiesa è un ossimoro: o le campane o l’orologio.
L’orologio meccanico
L’invenzione dell’orologio meccanico, sembra sia dovuta all’Arcidiacono di Verona Salomone Ireneo Pacifico (778-845). Uomo erudito e di grande ingegno al quale si deve una delle architetture più esemplari del Romanico Italiano: La Cattedrale di San Zeno.
Nella città celeste (il Cenobio) il padrone del tempo era la chiesa, perché padrone delle campane. Il tempo cominciava e finiva quando la chiesa azionava le campane, ed era solo il tempo del lavoro nei campi della preghiera, del riposo e della festa. Era un tempo che si contava dall’alba al tramonto e dividendolo in ore che non erano mai uguali, dipendevano dalle stagioni che accorciavano e allungavano le giornate e dalla pigrizia o distrazione del campanaro.
Nella Civitas il padrone del tempo è il mercato. Lo strumento che lo misura non è più la campana, ma l’orologio meccanico, che campeggia in cima alle torri comunali.
L’orologio meccanico, nella città medievale assunse subito un ruolo fondamentale per il suo sviluppo, divenendo strumento indispensabile finalizzato alle attività cittadine, che non sono più quelle del Ora et Labora del Cenobio bensì quelle di attività prosaiche indirizzate al profitto e ai commerci o alla politica amministrativa. È il momento, nella storia, in cui per la prima volta si concepisce la categoria del capitale.
L’avvento dell’orologio meccanico inaugura il tempo del denaro. Un tempo che ha ore esatte, tutte uguali per ogni stagione. Un tempo omologato, inesorabile, che non sgarra mai, perché: Il tempo è denaro!
E’ un tempo che non dipende più dall’uomo bensì ora è l’uomo che comincia a dipendere dal tempo, e il padrone del tempo è il mercato. Esattamente come nell’attuale società capitalistica, dove per arricchirsi bisogna rubare il tempo e diventare i padroni del tempo altrui Per sottomettere i popoli non serve più la spada basta rubargli il tempo: Il tempo per la riflessione, il tempo per il riposo, il tempo per lo svago, il tempo per il piacere… e lasciargli solo il tempo per lavorare e quello per consumare.
Così nella città medievale al tempo ciclico dettato della Chiesa si sostituì il tempo circolare dettato dai commerci.
Castanea delle Furie
A Messina, posto sulla parte acromiale del crinale dei Monti Peloritani vi è un ameno paesino collinare a vocazione rurale (prediletto da molte dimore di villeggiatura estiva della borghesia cittadina) dall’incerta origine toponomastica: Castanea delle Furie. Il piccolo villaggio si adagia su una lieve sella orografica dalla quale si dipanano le strade per Messina, per le Masse, per Spartà e per Rodia. Ai suoi piedi si formano due compluvi, entrambi sfocianti sul Mar Tirreno: uno più stretto che giunge nella località costiera di Spartà e l’altro più ampio e disteso che giunge sulla spiaggia di Rodia. Quest’ultimo è stato per molto tempo la via di comunicazione più importante del villaggio, poiché lo metteva più rapidamente in contatto con la costa.
Osservando il suo impianto urbano, la sua massa architettonica e i suoi elementi costruiti, emergono evidenti stratificazioni e alcuni elementi di rilevante interesse storico artistico, non solo nel tessuto, ma anche nei singoli organismi architettonici, come il notevole pregio dell’antica chiesa di origini normanne e del suo campanile: la prima, ormai contaminata da disgustose formalità all’uso barocco e da discutibili attività di restauro; il secondo insultato alla sommità da un’improbabile superfetazione merlata. La parte inferiore di quest’ultimo conserva quasi intatta la sua struttura medievale. La chiesa e il campanile sorgono su un pianoro che funge da ampio sacrato e dominano la parte più antica del paese, quella che declina verso il compluvio che giunge a Rodia, guardando all’orizzonte il Mar tirreno. Sul campanile, un orologio meccanico, strumento, visibile da ogni punto del paese e da ogni contado, con il quale in epoca antica la comunità misurava il suo tempo ed organizzava le sue attività.
La piazza senza orologio
Con l’arrivo della modernità e grazie alla realizzazione della Strada Provinciale n. 50, che consentì agevolmente di raggiungere Spartà o andare e venire da Messina, l’organismo urbano si espanse in direzione Sud, inglobando un tratto della strada provinciale medesima. Fu così che si formò la zona “moderna” dell’attuale abitato. In questa zona d’espansione, in prossimità dell’incrocio di tutte le strade, nuove e vecchie, fu ricavato un nuovo spazio urbano di socializzazione, localizzato in posizione strategica rispetto alla nuova strada. Un luogo di scambi di merci e d’incontri d’affari rurali e commerciali: un’altra piazza. La nuova piazza, anche se rialzata e recinta rispetto alla strada e in lieve pendenza, sottrasse comunque la centralità urbana al vecchio sacrato, ormai troppo alto e distante dal nuovo transito stradale.
In posizione dominante rispetto al nuovo spazio urbano, nella prima metà del novecento fu eretta una nuova chiesa madre. Il potere spirituale prendeva posto nel nuovo centro cittadino con un’architettura tipica di quell’afasico tardo neoeclettismo, che a quel tempo infettava Messina e dintorni, e che nella fattispecie non riuscì ad esprimere altro se non emulare lo stile neoromanico con un banale esercizio di scuola, proponendo in maniera scontata, pacchianamente in cemento armato e in pietre artificiali, alcuni repertori dello Stile Romanico: dal rosone agli archetti pendenti sulle linee inclinate della facciata a capanna, al protiro radente che incornicia uno scontato portarle d’ingresso con lunetta superiore.
Nonostante lo sforzo evocatore della tipica cattedrale dei borghi medievali del nord Italia, l’emulazione posticcia risulta parziale. Manca, per completare l’esercizio citazionista, il campanile. Come ogni chiesa e come ogni sacrato che si rispetti. Questa carenza probabilmente fu dovuta ad una mancanza di spazio, poiché a sinistra della facciata passa la strada provinciale e a destra sorge un palazzetto a due elevazioni fuori terra con il quale la chiesa condivide il dominio della piazza.
La piazza è uno spazio urbano quieto per quanto articolato in ampi gradoni è un poco in pendenza. È attrezzato con comode panchine ed è fittamente alberato ai margini da una sequenza di frondosi platani che offrono una ristorante ombra a vi sosta.
Uno spazio vissuto, che vanta un suo genius loci. Uno spazio che ispira nei cittadini un processo d’identificazione ormai compiuto, insomma: la classica “chiazza du paisi” dove la comunità si incontra, si riconosce, si identifica ed esercita pienamente il suo campanilismo. Un campanilismo insolito: un campanilismo senza campanile e senza un orologio civico.
Il signor C.G.
Appena si giunge nella piazza d’istinto ci si accorge di questa grave mancanza: non c’è il campanile, manca l’orologio. Ma al contempo si coglie la stranezza che nonostante questa percepita assenza si respira una forte atmosfera carica d’identità, tipica di quei luoghi dove la comunità in essi si riconosce. Ed ecco che guardando bene ci si accorge che il campanile c’è, la torre dell’orologio c’è, o almeno c’è il loro significante, è questo basta!
Qualcuno, sicuramente un personaggio che ha ricoperto e forse ricopre ancora un ruolo preminente all’interno di quella comunità (cosi importante al punto da avere la forza di contendere alla chiesa il dominio di quello spazio urbano con un palazzetto a due elevazioni fuori terra, sul cui timpano campeggiano le sue iniziali: C.G.), ha provveduto autonomamente a fornire la piazza di uno strumento per misurare il tempo.
Il signor G.G. sulla facciata amorfa del suo palazzetto (che ha la patetica aspettativa di voler assomigliare ad un tempietto greco, senza rinunciare al balconcino a petto d’oca dove far affacciare nobili dame e potenti per assistere all’uscita del santo patrono, come fosse il primo palco della Scala), dove al piano primo ha lasciato che l’agenzia di assicurazioni, a cui ha affittato la bottega sottostante (la rendita è sempre la rendita) potesse meglio e più palesemente pubblicizzarsi, ha montato un semplice grande orologio analogico di quelli che un tempo si compravano all’UPIM. L’orologio campeggia sulla piazza, chiaro e ben visibile, opportunamente protetto dalle intemperie con un oblò circolare in metallo e vetro.
Egli ha installato sul suo palazzo, finalmente, l’orologio civico mancante, garantendone l’efficienza e l’efficacia, supplendo e denunciando meritoriamente l’inefficienza di progettisti e amministratori.
Così quell’orologio che sta a metà strada tra la denuncia è l’ostentazione di un forte potere, conduce lo sguardo su quelle iniziali, ribadite leziosamente nella bandieruola d’apice, che sottolineano con fermezza inequivocabile che quel edificio, seppur adiacente alla chiesa, (vicinanza che ci farebbe pensare ad una canonica o ad un edificio curiale) è un edificio laico. Un edificio che rappresenta o ha rappresentato il potere temporale del luogo. Un potere prosaico di matrice feudataria, di una predominanza probabilmente economica, commerciale o latifondista, che nella piazza si è conquistato una posizione dominante contrastando il potere spirituale al punto da impedirgli di espandersi con i suoi campanili le sue parrocchie.
Quel palazzetto (simbolo icastico dei rapporti conflittuali tra chiesa e borghesia del luogo) è espressione di un potere che, come un tempo, si contrappone a quello religioso e oggi incarna il ruolo di mediatore tra lo spazio urbano e l’identità di chi lo frequenta. Oggi quel palazzo, o chi lo gestisce (forse qualche erede del signor C.G.) si è fatto collante sociale, più della chiesa e delle istituzioni pubbliche. Ha tenuto riunita la comunità, mantenendo salda l’identità collettiva provvedendo all’occorrenza di un campanile e del suo orologio. Ha dato risposta al bisogno collettivo, conscio e inconscio, di avere uno strumento che misuri il tempo della comunità medesima.
Il Signor C.G. oggi, si è avallato, o forse si è ripreso, il ruolo di essere il padrone del tempo. Del tempo moderno di chi abita e vive quei luoghi.
Ha fornito la comunità di un orologio comune, che con il ticchettare delle sue lancette rappresenta il battito cardiaco di chi ha vissuto e vive la storia di quel luogo.
Quell’orologio del Signor C.G. è ormai il luogo comune del tempo dei castanoti e la lucida metafora delle loro dinamiche sociali.
Così chi scrive, sostando nella piazza, per consumare un panino ed una birra, durante una pausa di lavoro, in un caldo primo pomeriggio settembrino, ha potuto godersi la deliziosa fresca quiete di quelle panchine, senza l’affanno compulsivo di controllare sul display del proprio Iphone l’orario. Gli è bastato alzare le ciglia e con un colpo d’occhio verso il palazzo del Signor C.G. verificare che si era fatta l’ora di tornare a lavoro, cosi come un tempo facevano artigiani, contadini, operai e braccianti. Gesto che li faceva identificare con quel luogo e contribuiva a sviluppare un’anima al luogo stesso: un Genius loci.
Carmelo Celona
13.11.2016