Architettura e forma del tempo
All’inizio del XX secolo la scienza cominciò a formulare le nuove leggi della fisica che porteranno alla fisica nucleare. Nel 1900 il fisico tedesco Max Planke elaborò la Teoria dei Quanti. Nel 1905 Albert Einstein formulò la prima versione della Teoria della Relatività. Nel 1908 Hermann Minkowski interpretò geometricamente le conclusioni sulla struttura del tempo e dello spazio di Einstein:”il tempo è continuità dello spazio mediante il movimento della materia”. Il tempo è la “Quarta Dimensione” ed ha una sua forma.
Queste nuove concezioni scientifiche entrarono presto anche nella coscienza di artisti, letterati, filosofi. Le avanguardie artistiche cominciarono ad indagare e rappresentare questa nuova concezione spaziale della realtà. Nacque il Cubismo, un movimento artistico d’avanguardia che cercò di rappresentare in pittura la continuità spazio tempo. Significativo il dipinto di Marcel Duchamp “Nudo che scende le scale”, del 1912, che interpreta la quarta dimensione e sancisce il passaggio dal Cubismo al Futurismo, altra avanguardia che caratterizzerà l’arte del XX secolo.
La nuova rappresentazione spazio temporale divenne fonte d’ispirazione anche per l’avanguardia architettonica praghese. Questa nuova scientifica concezione spaziale fu adottata dagli architetti praghesi come spunto per dare forma architettonica ad una nuova concessione di società socialista. Nacque così l’Architettura Cubista. Concepita da un movimento di architetti rivoluzionari che fecero di quelle inedite geometrie l’estetica della ribellione socialista alla dominazione austriaca. l’Architettura Cubista divenne l’elemento plastico di una rivoluzione sociale e politica che precorse la rivoluzione russa del 1917 e portò finalmente alla Repubblica Socialista Indipendente della Cecoslovacchia.
L’architetto italiano che più di tutti, a quasi mezzo secolo di distanza, assorbì l’ontologia del cubismo architettonico cecoslovacco, declinando in chiave neorealista i linguaggi degli architetti praghesi, fu Mario Ridolfi, un architetto romano (1904-1984) tra i maggiori interpreti dell’architettura italiana del ‘900, famoso per aver realizzato, nel 1933, il Palazzo delle Poste di Roma in piazza Bologna. Uno degli esempi più rilevanti del razionalismo italiano.
I Ridolfi erano una famiglia di esperti artigiani edili. Il capo stipite Vincenzo Ridolfi, nonno di Mario, famoso e abile “maestro di muro” pesarese, si trasferì a Roma nel 1850, dove ebbe due figli, Pietro e Salvatore. Questi, nel loro tempo, furono figure di spicco nelle arti minori della capitale. Il primo famoso pittore e decoratore, il secondo, padre di Mario, prestigioso stuccatore.
Il 28 febbraio del 1949, in Italia, fu emanata la legge n. 43. Una legge umanista che prevedeva: un “Piano d’intervento per la realizzazione di Edilizia Pubblica su tutto il territorio italiano”, meglio conosciuto come “Piano Fanfani” dal nome del suo ideatore. Il “Piano Fanfani” attivò nell’intera penisola uno dei processi sociali tra i più importanti del secondo dopo guerra. Le finalità della legge erano di: “Incrementare l’occupazione operaia agevolando la costruzione di case per i lavoratori”. Grazie a questo Piano la ricostruzione dell’Italia e degli italiani si realizzò attraverso la costruzione di case e quartieri popolari, che furono efficaci collanti sociali e identitari. L’attuazione del Piano fu affidata all’I.N.A. (Istituto Nazionale Assicurazioni), che per l’occasione istituì una sezione specifica: l’“INA CASE”. Il programma d’interventi previsto dalla legge andò subito a regime e già nel 1956 gli italiani a cui fu assegnata una casa popolare superavano il milione e mezzo.
Nell’ambito di questo processo l’“INA CASE” di Terni, nel 1949, affidò a Mario Ridolfi la realizzazione del primo quartiere popolare del capoluogo umbro, che fu chiamato Villaggio Italia. Un quartiere che, da subito, sorprese per la singolarità del linguaggio architettonico, rispetto all’architettura tipica dell’“INA CASE”.
Villaggio Italia è il quartiere che più spicca nel panorama degli interventi del Piano Fanfani, già molto qualificato grazie all’impegno dei più grandi architetti italiani dell’epoca, Franco Albini, Ignazio Gardella, Ludovico Quaroni, Carlo Aymonino, Giovanni Astengo, Luigi Figini e Gino Pollini. Grandi protagonisti della stagione razionalista che si misurarono anche con l’architettura delle classi lavoratrici e del terziario, dando vita ad un grande movimento architettonico di notevole qualità artistica: l’architettura neorealista. Costoro, Ridolfi in testa, ebbero la capacità e l’estro di coniugare magistralmente lessici colti con quelli popolari, creando una nuova semantica architettonica di alto valore culturale che divenne la cifra della ricostruzione della nazione.
In questo scenario, il linguaggio del quartiere ternano attirò l’interesse della critica per la sua specificità caratteriale, interprete di una cifra spartana, essenziale, che ancor oggi colpisce per la sua semplicità onesta e rassicurante. Un’essenzialità di linguaggio che esprime chiaramente una visione socialista, che all’epoca catturò molto l’ambiente degli intellettuali.
L’architetto romano nel Villaggio Italia propose un verbo che si distaccava molto dalle declinazioni correnti dell’architettura popolare. La marca ridolfiana, pur restando nei limiti delle prerogative essenziali che richiede la produzione diffusa del bene casa (soluzioni architettoniche che contengano i costi di realizzazione), è caratterizzata da geometrie inedite che presto influenzeranno molte realtà italiane e non pochi architetti.
Le forme e i linguaggi delle architetture di Ridolfi rimandano a qualcosa di misteriosamente significativo. Sono il significante di un processo che ha segnato la storia moderna. Un’efficace interpretazione simbolica della modernità e della sua secolarizzazione. La sua cifra interpreta ed esprime la tranquillità di pulite atmosfere domestiche. Le sue sono architetture che sembrano fatte apposta per vivere atmosfere abitative ideali. Un linguaggio che sembra avere il compito ideologico di mettere ordine in un paese martoriato dalla guerra e ancora immerso nelle sue macerie.
Nel 1950, sulle ali del successo ternano, Ridolfi insieme a Quaroni ed Aymonino progetta e realizza il Quartiere Tiburtino a Roma. Nel 1952 il quartiere Case INA di Cerignola. Il suo stile attrae anche la ricca committenza privata. Negli anni 1952 e 1953 realizza due autentici capolavori di architettura borghese: la Casa Fognoli e il Palazzo Chitarrini a Terni. Qualche anno dopo si misurerà anche con il tema delle tipologie intensive delle “case a torre”, prima a Napoli nel quartiere “INA CASE” di via Tiglio e poi a Roma in quello di via Etiopia, creando anche in queste occasioni dei paradigmi stilistici.
Le palazzine popolari di Ridolfi sembrano fatte apposta per gente felice e tranquilla. Sono edifici dal linguaggio schietto che risponde pienamente a quel bisogno di purezza, di pulizia, di ordine che si ha dopo aver subito un trauma, dopo essere stati colpiti da un lutto. Ambienti e architetture poeticamente semplici. Spazi interni ed esterni che danno la sensazione che in essi vive un mondo fatto di relazioni positive basato sul buon senso e sull’equità. Le sue architetture forniscono l’idea di essere la soluzione pratica ai problemi della ricostruzione fisica e civile dell’Italia. Danno l’idea di essere quel rifugio nella quiete tanto desiderato, dopo aver vissuto le atrocità della guerra.
L’”INA CASE” non fu l’unico istituto di case popolari o economiche con il quale Ridolfi collaborò.
In quegli anni vi furono altri tre istituti pubblici che operarono alla realizzazione di alloggi per le classi lavoratrici: lo I.A.C.P. (Istituto Autonomo Case Popolari ); U.N.R.R.A.(United Nations ReliefRehabilitation Administration – un’associazione umanitaria internazionale) e l’I.N.C.S. (Istituto Nazionale Case Impiegati Statali). Per quest’ultimo istituto Mario Ridolfi realizzò un edificio a Messina.
Era l’inizio del 1952 quando nella centrale via Tommaso Cannizzaro della città dello Stretto, tolti i ponteggi, apparve un edificio di originale bellezza ultronea. Un Palazzo a corte, a quattro elevazioni f.t., destinato ad alloggi per gli impiegati statali che operavano in città, più botteghe al piano terra. L’organismo architettonico occupava l’intera superficie dell’“Isolato 276” affacciandosi con il prospetto principale sulla già citata via Cannizzaro e con gli altri prospetti sulle vie U. Bassi, del Vespro e Natoli.
Il Palazzo, alieno al contesto, con la sua semantica totalmente inedita affrontò subito l’inappropriato rinascimento fiorentino del dirimpettaio Palazzo Costarelli, la pedante esuberanza decorativa del Palazzo della Camera di Commercio e il marziale neoclassicismo della Caserma della Guardia di Finanza contrapponendosi a questi con una nuova categoria linguistica che esprimeva più i valori dell’uguaglianza che quelli dell’ostentazione dei privilegi e del potere economico e militare. L’opera manifesta l’intenzione di tenere più alla salvaguardia dell’individuo e a garantire un’esistenza concreta e positiva a chi lo abita invece di fare sfoggio di lusso e opulenza. L’articolato edificio è un’architettura che fornisce l’idea di appaganti atmosfere domestiche. Visitando i suoi spazi si ha la sensazione piacevole di quando s’indossa un abito comodo, anche se non propriamente elegante e costoso. Nel suo cortile si respira, come in tutte le architetture di Ridolfi, un umanesimo colmo di famigliarità e di sereno e perequato benessere. L’edificio proietta nel fruitore un senso di comunità felice al cui interno non si vive alcuna alienazione o asimmetria sociale.
Quest’opera incanta per la sua forte espressività rigidamente geometrica ma al contempo stranamente poetica, e affascina per il modo in cui s’impone nel contesto cittadino con la sua schietta identità razionale, scientifica, seria, onesta, leale. Caratteri che mettono in imbarazzo l’anacronistico e insensato neo eclettismo che la circonda.
Sembra quasi che l’edificio si assuma il compito di mettere ordine nella babele estetica di quella città risorta senza identità dopo il terremoto del 1908 e ulteriormente violata dai devastanti bombardamenti del 1943 che l’hanno ridotta ad essere il fantasma di se stessa.
Questo palazzo ebbe la forza, tipica delle vere opere d’arte, di essere il lievito che sviluppò in riva allo Stretto un lessico neorealista autoctono di grande qualità, pienamente interprete del fenomeno nazionale.
L’Isolato 276 è l’organismo architettonico che più di altri ha qualificato la stagione razionalista e neorealista messinese, nella quale la città visse una vera rinascita civile, sociale, culturale e non solo artistica. E’ un’architettura che assume in sé un forte valore didattico. E’ l’elemento palingenetico di quella pregevole corrente neorealista che negli anni cinquanta del secolo scorso vide operare architetti come Filippo Rovigo, ed altri, che offrirono alla città di Messina un patrimonio architettonico (case popolari, piazza, fiere, cinema, stabilimenti balneari, ecc..) di grande qualità lessicale che in certe circostanze (Piazza Castronovo, Lido di Mortelle, Cinema Olimpia, ecc..), con struggente lirismo, ha raggiunto punte di elevata genialità. Tutte architetture (che indagheremo in altra sede) non secondarie, semmai omologhe, a quelle che hanno qualificato le grandi città italiane in quegli anni e che ancor oggi rappresentano i luoghi comuni della narrazione neorealista italiana del secondo dopoguerra.
L’Isolato 276 è stato ed è un gioiello architettonico che ha avviato a Messina un processo di alto valore culturale: i suoi balconi a punta di diamante altro non sono che un legame con la grande avanguardia socialista europea, le sue geometrie declinano lo stesso verbo che fu il segno distintivo del socialismo dell’est Europa e le sue forme attingono la loro origine ontologica dalla teoria della relatività di Einstein.
Carmelo Celona
13/10/2016