Abuso edilizio vista mare, mille chilometri di spiaggia nel degrado
Mi mette a disagio la sottrazione di bellezza compiuta a discapito del paesaggio siciliano e della costa in particolare da parte di una feroce e dilagante edilizia, non solo abusiva. Un’edilizia fatta in fretta, disarmonica espressione di un pragmatismo progettuale e un prosaicismo esecutivo oggettivamente irritante. Espressione di un’insensibilità verso il paesaggio, verso il contesto ambientale. Un insulto all’integrità ecologica e alla bellezza compiuto da tutte le figure che hanno operato: pianificatori, progettisti, committenti, imprese appaltatrici, Comuni che rilasciano le concessioni edilizie, Uffici del Genio Civile che approvano i calcoli statici, Soprintendenze che esprimono il loro Nulla Osta, tutte le altre autorità che hanno competenza, intellettuali, critici, giornalisti, ecc… .
La fascia costiera sicula è quello che tecnicamente i paesaggisti chiamano: “paesaggio lineare”. Gli oltre 1000 km di costa siciliana sono un “paesaggio lineare” di incommensurabile bellezza e di enorme valore culturale ed estetico.
Dal punto di vista paesaggistico Il “paesaggio lineare” non è una linea astratta, né un vettore virtuale e geometrico. Il “paesaggio lineare” è un contesto che si sviluppa, senza soluzione di continuità, esibendo una reale grandezza fisica, di notevole valore ecologico, naturalistico o antropico, lungo una linea o un margine di demarcazione che svolge una funzione territoriale, quale un fiume, una strada significativa, un confine nazionale, il limite di un bosco, di una pianura, una falesia, una costa. Elementi che per la loro marcata caratterizzazione del territorio posso assolvere il ruolo di elementi di rigenerazione territoriale. Assi attorno ai quali strutturare strategiche pianificazioni territoriali sostenibili che avvino i processi sociali, economici e culturali virtuosi.
I “paesaggi lineari” prendono corpo dalla profondità delle aree che si sviluppano lungo la loro linea. Aree cuscinetto tra l’elemento di demarcazione, che quasi sempre ha caratteri di notevole bellezza e armonia, e il resto del territorio. Il paesaggio ormai da tempo è un concetto scientifico. fu il naturalista tedesco Alexander von Humboldt (1769-1859), già agli inizi del IXX secolo, a concepire il paesaggio non solo come concetto estetico, dal significato romantico, ma anche come concetto geognostico dal significato ecologico.
La costa siciliana da sempre ha assunto il ruolo di margine, di bordo di quella metafora che è la Sicilia. Il confine di un arcipelago culturale che è stato è sarà sempre soglia, confine, approdo, linea di partenza.
Un margine che non è una semplice linea di demarcazione tra un elemento solido (la terra), e un elemento liquido (il mare), come accade nelle comuni località rivierasche. La costa siciliana è un margine su cui sono avvenuti millanta sbarchi, di infinite occupazioni. Un bordo dal quale ha avuto inizio e fine ogni civiltà, ogni conquista, ognuno dei poteri che nell’isola si sono susseguiti, combattuti e che ancora si susseguono e si combattono. La costa siciliana è un elemento impalpabile che separa la Storia dal Mito.
Lungo le coste della Sicilia vige un vincolo a tutela dell’integrità paesaggistica e ambientale di quel margine che divide l’isola dal mito, che risale al 1976 (art.15 L.R. 78/76 e tutta la barbarie di successive modifiche e integrazioni, circolari esplicative – che non esplicano nulla-, ecc..).
Un vincolo che impone l’inedificabilità assoluta lungo una fascia di costa profonda 150 metri misurati dalla linea (sempre mutevole) della battigia. Fascia di rispetto di analoga profondità vale anche per le rive dei fiumi e dei laghi, per i margini dei boschi e per le aree prossime ai parchi archeologici.
Una disciplina sacrosanta, la cui ontologia è senza dubbio la tutela di queste bellezze e della loro integrità ed unicità ecologica, naturale, paesaggistica, artistica e culturale.
Ma Oggi, a quarant’anni dall’entrata in vigore di quel regime di tutela, purtroppo, ci tocca constatare, senza timore di essere smentiti, che l’inedificabilità assoluta prevista dalla norma si è trasformata, nella maggioranza dei casi, in una paralisi assoluta. L’attività di gestione del vincolo non ha attivato alcuna azione di valorizzazione, fruizione e promozione di quelle bellezze costiere che la legge stessa intendeva tutelare.
Rare sono state le azioni finalizzate a promuovere, per tempo, opportuni piani di sviluppo paesaggistico, piani attuativi per la valorizzazione delle coste e delle spiagge.
Oggi possiamo affermare che le coste siciliane, questi, veri e propri, giacimenti culturali, sono stati lasciati al loro destino, senza alcuna progettualità finalizzata a generare un equilibrato sviluppo territoriale sostenibile basato sulla necessità di valorizzare, promuovere e fruire le bellezze vincolate, rispondendo alle reali e ineludibili istanze antropiche con strategie di governo del territorio programmate per attivare nuovi equilibri ecologici, rafforzare quelli esistenti e recuperare quelli perduti. Strategie di pianificazione capaci di avviare uno sviluppo territoriale sostenibile che determinasse equità sociale, integrità ecologica naturale e formale, valorizzasse l’unicità culturale di queste bellezze e producesse una strutturata efficienza economica. Sottolineo efficienza economica e non sviluppo economico, cioè un’economia che non abbia come fine il denaro, sul cui altare è consentita ogni speculazione possibile a discapito dell’ambiente e dei beni culturali, bensì un’economia che guarda alle esigenze reali dell’uomo basata più sull’etica e sull’ecologia. Un’economia che valorizzando le vocazioni più proprie e sostenibili dei territori oggetto di tutela distribuisca opportunità e diritti in maniera perequata. Lo scempio in analisi si deve proprio all’inconsulta corsa verso lo sviluppo economico, che dalle nostre parti e in questo contesto storico significa solo e soltanto, fare soldi. Fare soldi ad ogni costo, su ogni cosa: uomini e natura compresi; violando tutti i sacri tabù etici e morali che sono stati negli ultimi secoli il fondamento della civiltà occidentale.
Il vincolo ope legis (art.15 L.R. 78/76) si è trasformato di fatto in una fatale eterogenesi dei fini. L’azione di tutela (non vi è tutela senza azione) si è trasformata in una immobilità che invece di migliorare le condizioni delle bellezze d’insieme vincolate, in moltissimi casi, ne ha decretato l’inesorabile declino.
Lo status quo ci fa pensare che in certi casi sarebbe stato meglio una contaminazione viva del paesaggio che un’integrità morta. Pastoie burocratiche e rigidità valutative, hanno bloccato anche le soluzioni virtuose facendo si che in questa paralisi germogliassero, gioco forza, processi di gestione deformati, che approfittando di ritardi, occhi di riguardo, incertezze interpretative, eccessivi formalismi, autorità senza sensibilità e competenza che o favorisce o inibisce, hanno avvantaggiato il torbido pantano del clientelismo e delle speculazioni.
Questi atteggiamenti hanno reso le coste una terra di nessuno cui vige altra sovranità.
La cui gestione ordinaria è stata demandata a norme e leggi di ordine generale incapaci di governare le peculiarità e le specificità di ognuno di questi preziosi beni. Piani paesaggistici redatti con troppo ritardo, e di cui molti di loro sono ancora in fase di approvazione, comuni che non hanno redatto piani specifici di gestione delle coste, e delle aree speciali, P.R.G. che nella maggioranza dei casi si sono limitati a riportare la perimetrazione del vincolo all’interno del Piano stesso rimandando la loro disciplina a futuri, quanto improbabili piani attuativi, senza predisporre indirizzi specifici di complementarietà territoriale tra i suoli disciplinati e quelli stralciati a causa del vincolo.
Tutto ciò ha reso le coste come terre. Vere e proprie terre straniere dove impera ogni tipo di speculazione, politica, amministrativa, economica e sociale.
Dopo quarant’anni di vincolo e tutela, le coste sono vere e proprie terre straniere totalmente inflazionate dalla presenza endemica di case abusive, quasi sempre incomplete, e di case regolari che esprimono linguaggi decontestualizzati turbando fortemente il paesaggio costiero. Le coste della Sicilia sono nella migliore delle ipotesi abbandonate a se stesse, al degrado, impraticabili, e devastate dall’abusivismo di ogni sorta, e da grandi operazioni legittime ma del tutto inopportune, evidente espressione di momenti in cui democrazia e legalità sono state sospese. Questo perché al vincolo di inedificabilità assoluta non ha fatto seguito mai un piano regionale strategico di valorizzazione delle coste. I comuni non hanno provveduto ai piani delle spiagge. Un vincolo che paralizza un territorio è innaturale come una imposizione di castità, non può che far aumentare morbosamente il desiderio della trasgressione e nutrire ogni latente perversione e ogni tipo di devianza.
D’estate, nelle poche spiagge dove è possibile una fruizione turistica e balneare della costa, impera una straripante quantità di lidi e strutture turistico/recettive improvvisati, senza logica e senso estetico, precari, posticci e disorganici. Risultato finale: degrado d’estate e abbandono d’inverno.
A scanso di equivoci, è lungi da chi scrive, fare l’apologia dell’assenza di vincoli di tutela, ma è solo il voler sottolineare che
Un vincolo che paralizza un territorio è innaturale come una imposizione di castità, non può che far aumentare morbosamente il desiderio della trasgressione e nutrire ogni latente perversione e ogni tipo di devianza.
Quando nella fascia di 150 metri dalla battigia vediamo una villa o una costruzione quella o è stata costruita prima del 1978 e quindi è un privilegio o è stata realizzata abusivamente quindi è una violazione di legge. Queste ultime si caratterizzano per la loro precarietà, per il loro stato d’abbandono e hanno l’estetica della fretta e dell’essenziale. Una terza ipotesi è costituita da una singolare fenomenologia: manufatti fatiscenti abbandonati, incompleti, scheletri di strutture in cemento armato di costruzioni iniziate prima dell’entrata in vigore della legge (1976) con regolari licenze edilizie che sono state revocate in corso d’opera, per poi non essere mai più demolite per inefficienze procedurali. Infine un’ultima tipologia, gli “ecomostri”: costruzioni incongrue fortemente impattanti ma regolari, previste dagli strumenti urbanistici e approvate dalle autorità competenti, i cui lavori vengono sospesi in forza della vibrata protesta, che trova eco mediatico, di cittadini sensibili di ambientalisti indignati. Così i lavori vengono fermati e i permessi revocati causa impopolarità, della serie: “ci abbiamo provato”. Così le coste siciliane sono deturpate da scheletri da abbattere che le amministrazioni non hanno mai abbattuto, per inefficienza, per mancanza di mezzi, di fondi, per complicità clientelare, o perché nella maggioranza dei casi (è il caso soprattutto degli “ecomostri”) si sono aperti contenziosi legali infiniti, che nessuno degli attori ha interesse a concludere.
Ecco come la gestione di un sacrosanto vincolo si è trasformata in una mera gestione di potere. Secondo il solito modo di amministrare la cosa pubblica, che determina scientemente disagi e bisogni, per catturare meglio e più facilmente il consenso. Questa è la forma mentis di chi fa le leggi e di chi le fa applicare.
Cosa bisogna fare? Riformare la materia è certo necessario. Ma chi la fa? Con quale categoria di pensiero? Con la stessa mentalità riformista attuale che in ogni circostanza genera solo e sempre perverse l’eterogenesi dei fini: riforme per favorire il lavoro che tolgono il diritto al lavoro, riforme della scuola che eliminano il diritto allo studio, ecc.
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Per il recupero del paesaggio costiero in Sicilia serve una profonda riflessione sui concetti di valorizzazione, promozione, fruizione e tutela dei beni culturali. Una visone strategica che guardi ad un progetto generale di riordino che risemantizzi questo inestimabile “paesaggio lineare”. Un Piano che preveda una sequenze di azioni materiali e immateriali che assumano efficaci ed efficienti funzioni di tutela, gestione e valorizzazione dei contesti. Una soluzione che abbia una strategia di grande scala che rafforzi le fragilità e le carenze infrastrutturali in modo da facilitare processi di fruizione armonica della costa, nella consapevolezza che una fruizione costante (affiancata da capillari politiche di promozione) fa anche da ”azione” di tutela.
Insomma serve un nuovo paradigma. Con il quale cominciare a riconsiderare e rileggere la costa siciliana come un “paesaggio lineare” da recuperare in termini di “connettività” e “contestualizzazione” rispetto agli altri elementi finitimi, il mare e l’entroterra. Servono nuove procedure vincolistiche che abbiano carattere progettuale e gestionale. Bisogna cominciare a pensare di valorizzare e gestire altrimenti. Bisogna capire che riqualificare il margine della nostra isola significa anche ricostruire i bordi della nostra identità e riprendersi una buna parte dell’estetica perduta. Valorizzare i “paesaggi lineari” rappresenta sempre l’occasione di ricostruire un rinnovato senso estetico dei luoghi e un nuovo significato culturale sulle forme di ieri.
Se non si interviene questo margine posto tra la nostra storia e i nostri miti perderà per sempre il suo significante archetipo cronicizzandosi in quella che ormai è: una terra di nessuno, dove lo squallore è norma e il degrado è legge.
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Quella cifra alessica è l’espressione di una concessione fintamente emancipata che sfrutta ancora una volta i servi della gleba, che restano teli nonostante il suffragio universale e la riforma agraria. Quest’ultima fallita manu militari usando i campieri e la mafia. (56 sindacalisti morti dopo l’approvazione della legge Gullo) .
Servi della gleba, costretti a migrare invece di vedere riconosciuto il diritto a prendere le terre fertili e finalmente prosperare, là dove avevano prosperato per secoli i padroni, abbandonati da uno stato che nell’isola non riuscì a imporre le sue leggi e la sua nuova costituzione, alla politica locale, che intanto aveva assorbito molti dei vecchi padroni. Rappresentanti politici, regionali e nazionali che invece di sostenere le riforme le hanno osteggiate con ogni mezzo, stragi comprese, preferendo la diaspora alla perdita concreta dei privilegi e del latifondo.
Costoro al ritorno dell’emigrante arricchito hanno usurpato la ricchezza faticosamente accumulata, con umiliante e bestiale sacrificio, nelle miniere del nord europa o nelel fabbriche del nord itallia o nel busines americano, estorcendogli il consenso di una licenza edilizia a basso costo. Una diritto svenduto come favore, come sempre. Sempre loro.
Quella cifra alessica è l’espressione di una concessione fintamente emancipata che sfrutta ancora una volta i servi della gleba, i quali dal 1946 hanno diritto al voto, e che dopo aver fatto fallire la riforma agraria, manu militari, della mafia e dei campieri ( 56 sindacalisti morti dopo l’approvazione della legge Gullo) .
Servi della gleba che bisognava irretire, che invece di prendere le terre e finalmente prosperare in assenza di padroni abbandonati dalla politica, quella politica che avrebbe dovuto attivare politiche di sviluppo economico quale volano della produzione agraria nell’isola fertile e bella, li ha fatti emigrare e ridursi in schiavitù all’estero, là dove c’èrano le industrie e dove si era compiuta la rivoluzione e lo sviluppo industriale frenato al sud, per poi sfruttare la ricchezza da loro prodotta e accumulata con il sacrificio dell’emigrazione, estorcendogli il consenso di una licenza edilizia a basso costo. Una diritto svenduto come favore, come sempre. Sempre loro.
Coloro che per secoli dagli arabi in poi hanno prosperato, sempre sul bisogno dei poveri, dei più deboli, dei diseredati, che hanno creato e gestito per secoli, per mantenere feroci privilegi, loro e i loro avi.,
E’ su questo ciglio che oggi appare un’edilizia prosaica, espressione di un pragmatismo spietato, legittimato da strumenti urbanistici, leggi e regole che hanno favorito un sistema di gestione corrotto e ignorante, la cui cifra afasica è quella di una alessia di linguaggio che a partire dal secondo dopo guerra ha infettato una delle coste più belle del Mediterraneo. Finiti gli ultimi echi della stagione del Liberty, del Floreale e del neo eclettismo (spenti anche i fuochi razionalisti del periodo fascista) che avevano caratterizzato il gusto architettonico siciliano fin dai primi anni del ‘900, alla ripartenza democratica si impone ovunque nell’isola e anche lungo le coste, una cifra estetica prosaica, senza alcun orizzonte culturale, che ha devastato la visione di ogni città e di ogni paesaggio isolano.
Lungo la costa a partire dagli anni 60 del secolo scorso s’impone un’estetica il cui significante è quello della compiacenza di pianificatori, architetti, comuni, soprintendenze, sindaci, politici, intellettuali, giornalisti, ecc.. Insomma uno scempio attraverso il quale, tutti coloro che hanno amministrato e operato, a vario titolo, hanno contribuito, chi più chi meno, con l’obbiettivo di intercettare consensi, radicare il potere e arricchirsi facilmente: interpretazione distorta della neo nata democrazia, declinata, come sempre, in Sicilia, in modo gattopardiano. Atteggiamento rapace tipico e perpetuo delle classi dominanti dell’isola che anche in quella circostanza sono stati capaci di camuffare, sotto le sembianze democratiche di un nuovo stato repubblicano il loro potere feudale mai sconfitto e superato. Un potere baronale che al nascere di riforme agrarie e boom economici, che avrebbero emancipato la Sicilia e i siciliani, frenarono questi cambiamenti culturali costringendo i braccianti e i pescatori dell’isola (la maggioranza della classe operaria) ad emigrare.
Carmelo Celona
27.06.2020