Il Restauro di Palazzo Cerruti
Cancellata una delle ultime tracce dell’architettura epidermica di Gino Coppedè
Il tanto atteso restauro del palazzo del “Banco Cerruti”
Con un semplice intonaco in pasta si è seppellito un intonaco originale policromo, tutto decorato a buon fresco o a “sgraffito”, secondo un’antica tecnica rinascimentale che troviamo descritta persino da Giorgio Vasari nel suo “Le Vite”. Una tecnica che fu la cifra singolare della versione messinese delle Stile Coppedè. Con la stessa semplicità si è trasformata una raffinata cornice ad ogiva in una banale “archeggiata” a tutta sesto. Con altrettanta superficialità prosaica si sono praticate bucature con cornici deformi là dove in origine vi era una delle soluzioni d’angolo più originali della città. Questa è la nuova frontiera del restauro architettonico a Messina?
Guardando la trama del Piano Borzì il piccolissimo comparto III dell’isolato 312, sembra un’area di sfrido forzata all’edificabilità. Un lotto prestigioso e redditizio, anche se difficile da progettare, un triangolo isoscele di circa 450 mq prossimo all’abside della Chiesa dei Catalani con il lato più lungo posizionato sulla via Garibaldi, che la Società Anonima Italiana “Ferrobeton“, impresa edile dei fratelli Cerruti, che ebbe un ruolo preminente nella ricostruzione della città dopo il 1908, non si lasciò scappare (foto 1). Acquisito il comparto affidò il difficile compito all’estro geniale di Gino Coppedè, il quale non tradì le aspettative (foto n.2), riuscendo a risolvere la difficoltà degli angoli troppo acuti, che avrebbero condizionato le ergonomie interne, con un sorprendente espediente: arrotondò i due vertici che davano sulla via principale e li rese ciechi (foto n. 3). I lavori ebbero inizio 26 dicembre 1915 e furono ultimazioni il 28 febbraio 1917. Da quella data l’edificio fu sede della banca dei finanzieri genovesi, dove transitarono molti dei fondi pubblici destinati alla ricostruzione, tanto che i messinesi usavano indicarlo come: il “Banco Cerruti”.
Tolti gli ultimi ponteggi il palazzetto appare alla città in modo clamoroso, ostentando un atteggiamento esotico magicamente realizzato con stilemi medievali (foto n. 4). L’involucro era scandito da sorprendenti cornici ad ogiva di stile moresco che dialogavano con l’enfatica iconografia araldica di un rinascimento toscano fuori luogo, stemperata dai simboli marinareschi di una improbabile repubblica veneziana. Gli spazi compresi tra le arcate moresche, uniche in tutta la produzione coppedeana, erano ritmati da un susseguirsi di archeggiature di sottogronda al cui interno si alternavano scudi araldici ed aquile imperiali. Il resto del prospetto al piano primo era ricoperto da intonaco policromo graffito a buon fresco con sinuosi e fitti tralci verticali tanto da dare la sensazione che l’edificio fosse rivestito da un tessuto (vedi foto 5).. Questa decorazione parietale rappresenta un magistrale esempio di quell’architettura epidermica a cui Gino Coppedè dovette ricorrere per superare i ristretti vincoli di natura antisismica, truccando la pelle degli edifici. Da questa esigenza scaturirono nuovi stilemi prodromi del repertorio semantico sfoggiato qualche anno dopo nel Quartiere romano di via Po. Quei tralci verticali che decoravano la facciata del “Banco Cerruti” si possono ammirare nell’elegante pronao di uno dei “Villini delle Fate” (vedi foto n. 6).
Nel 1943, subì i bombardamenti, ma la sua fisionomia rimase inalterata, bastava un’operazione di make up per avere restituita l’opera come in origine. Viceversa nel 1946 venne solo soprelevato. La stratificazione oltre ad essere incoerente fu più fatale dell’insulto bellico, poiché per ancorare la struttura in soprelevazione fu smantellata tutta la decorazione di gronda e sottogronda, e per coprire questa mutilazione le superfici graffite sono state ricoperte con un intonaco di cemento lasciato grezzo (vedi foto n.7), rendendo incomprensibile l’idea originale (vedi foto 8) per più di 70 anni.
Recentemente, l’organismo architettonico è stato oggetto del tanto agognato restauro (vedi foto 9 e 10). Ci si aspettava che finalmente questa storia venisse fatta risorgere. Che l’intervento rendesse giustizia alla speciale idea originaria, restituendone quantomeno il significante. Ci si aspettava un intervento attento che facesse emergere la bellezza mortificata dall’intonaco grezzo e dalla soprelevazione ultronea, invece no!
Un altro strato di intonaco, stavolta in pasta gialla, ha ricoperto definitivamente tutto. Cancellando definitivamente quelle tracce e quegli elementi che avevano ormai assunto una grande valore storico, artistico e documentario. Le singolari cornici ad ogiva, sono diventate spietatamente curve, le poche decorazioni in amalgama di cemento riproposte sono state restituite in modo amorfo e dipinte di bianco (vedi foto n.11 e n.12). L’angolo cieco prossimo all’abside della chiesa dei Catalani è stato barbaramente bucato da aperture con cornici disarmoniche, commettendo quell’inevitabile errore delle cornici deformate che proprio Coppedè aveva evitato con l’espediente delle rotondità cieche (Vedi foto n.13).
Insomma di quell’involucro eclatante che chiunque può ammirare nelle diffuse foto d’epoca è rimasto solo una torta di crema gialla con le guarnizioni di panna.
Così ancora una volta, a Messina, la storia soccombe davanti all’utilità. L’utilità di pulire tutto nel modo più economico e veloce, senza porsi il problema di restituire alla città nemmeno un frammento di una vicenda così originale. Tanto sulle prime il nuovo dà sempre l’impressione del bello soprattutto a chi non ha memoria del preesistente. Insomma si è fatta una pulizia di “facciata”.
Questo inspiegabile “Cancellauro” (restauro che cancella) tipico delle nostre latitudini è la lucida metafora di come in riva allo Stretto non si riesce a conservare nulla del passato. È la prova provata che non è colpa dei terremoti e dei bombardamenti. La città è affetta dal morbo di Alzheimer. Sistematicamente ad ogni trauma o trasformazione coglie l’occasione per cancellare il passato, sia quello antico che quello recente. È come se ogni volta che riordiniamo i nostri cassetti buttassimo via le foto di famiglia, anche quelle recenti.
Ma qual è la spinta che muove l’inconscio collettivo verso questo istinto di rimozione? Perché la città non vuole ricordare nulla del suo passato? Forse perché sente la storia come uno scomodo testimone che può sconfessare quella istintiva narrazione encomiastica e autoreferenziale di cui ogni messinese fa abuso, nonostante i fatti danno ampia prova contraria? Forse perché sentiamo che la storia dei nostri comportamenti non è una storia da far bella figura, fatta com’è di mediocrità e furbizia, quindi la cancelliamo per poterla idealizzare? Forse sappiamo bene che la storia scritta nelle pietre in questa città nega implacabilmente la storia posticcia scritta e raccontata nei libri e nei giornali? Per questo cancelliamo palazzi, monumenti, nascondiamo archivi, ecc…?
Il Restauro del Banco Cerrutti è l’ennesima cancellazione della storia che ubbidisce ad un pragmatismo sempre più grigio e sempre più disarmante. E’ il significante di una insensibilità collettiva che contrasta fortemente con la vantata messinesità. Una sorta di cortocircuito identitario permanente.
Perché ciò accade? Non è questione di mancanza di risorse economiche, non è questione di strumenti legislativi, vincoli, leggi, burocrazia, speculazione, non è questione di mancanza di potere gestionale, forse è semplicemente questione di gusto e di competenza.
Spesso esaltiamo fanaticamente una bellezza estetica e morale che Messina che non ha. Non ce l’ha proprio perché noi stessi che la vantiamo siamo i primi a deturparla ogni qual volta il suo mantenimento e la sua cura entra in conflitto con il più piccolo dei nostri interessi personali.
La bellezza ha un prezzo! ma noi messinesi la concepiamo solo omaggiata, al netto del nostro egoismo.
Carmelo Celona
21.07.2019