Le architetture dell’alienazione: edifici alta concentrazione antropica e sviluppo di sindromi psicosociali

 

Non vi è grande città senza periferia e non vi è periferia che non abbia i suoi grandi architetture a forte concentrazione umana. Edifici enormi, come le Vele di Scampia a Napoli, Corviale a Roma, Gallarate a Milano, Lo Zen a Palermo, le “Lavatrici” di Genova, i grandi condomini di Hong Kong, Pechino, Seul, ecc.. ecc. Organismi architettonici dove l’alta concentrazione antropica e la localizzazione marginale rispetto al cuore delle città e ai servizi essenziali produce degrado fisico, materico, civile e sociale. Autentici spazi di emarginazione e alienazione dove è alta l’incidenza di sindromi psicosociali.

L’architettura è un elemento fisico che sta in rapporto continuo con la biologia e la psicologia del suo fruitore. Il corpo umano è la misura dell’architettura e ne sancisce la sua qualità.

Le architetture a misura d’uomo sono il metro con il quale si stima la qualità degli spazi da essa modellati.  Quando un organismo architettonico non è a misura d’uomo, l’uomo vive a disagio, il suo corpo e la sua psiche avviano istintivi processi di adattamento per sopravvivere.

Gli sforzi adattativi che l’uomo compie per aumentare le possibilità di sopravvivenza in spazi e architetture inadeguate ai suoi bisogni, si ripercuotono nella sua psiche generando stress psicosociali che presto si traducono in disagi psichici ed in alcuni casi sfociano in veri e propri disturbi psichici: fluttuazione dell’umore, comportamenti disfunzionali, disordine mentale, malattie e veri e propri stati psicopatologici. I disturbi psichici possono generare gravi sindromi psicosociali con conseguenti allarmanti mutamenti del comportamento antropico standard. Tant’è che alcuni antropologi indicano questi mutamenti tra le cause di una riduzione delle capacità di protesta e di proposta, soprattutto nelle più moderne generazioni.

Questi fenomeni sempre più ricorrenti sono riconducibili anche all’assenza di riferimenti storici nell’ambiente in cui l’uomo oggi vive. Luoghi e città che gli rendono sempre più difficile il riconoscimento della propria identità, soprattutto quella riferita a spazi in cui vive con gli altri, ove socializza, forme fisiche di uso comune come: palazzi, monumenti, simboli, piazze, strade, ecc… Ciò rende difficile la sua partecipazione ai processi democratici e sociali. Questa difficoltà lo rende incapace di filtrare criticamente, attraverso un’identità strutturata, tutti i significanti e i simboli che arrivano dai media e dalla rete e invadono gli spazi della vita della comunità in cui vive e quelli della memoria collettiva.

Noi tutti siamo ormai come carta assorbente. Questa conclamata incapacità reattiva, giorno dopo giorno, ci rende vittime di quell’abuso cronico di sottrazione di diritti, di prevaricazioni sociali e di asimmetrie di trattamento che scorre ogni giorno ed infetta la nostra vita civile. Nessuno è più capace di reagire all’amorfismo degradante dell’omologazione. Non abbiamo più nessuno scudo culturale che ci metta al riparo e ci difenda dalla sistematica e scientifica sottrazione dell’identità che la globalizzazione neoliberista e il postmodernismo impone. Il cittadino non può e non deve più riconoscersi nella sua comunità locale. Il localismo e diventato globale.

Questo fenomeno determina un isolamento dell’individuo che forse mai nella Storia si era verificato con questa pervasività. Siamo virtualmente a contatto, in tempo reale, con tutto il mondo, con milioni di persone, ma praticamente viviamo condizioni esistenziali di assoluta solitudine e di vulnerabilità, senza concepire minimamente l’idea di aggregarsi e reagire o quantomeno opporsi tutti insieme e resistere. E’ quasi perduto, ormai, l’istinto alla condivisioni delle emozioni, soprattutto quelle in modo collettivo.

La caratteristica di questa grave alienazione che non si declina nel chiuso di una stanza, nell’isolamento di un carcere, nel vivere una vita ritirata in campagna o in alta montagna, da soli a contatto con la natura, bensì è vissuta immersi in una moltitudine di simili e in quasi e luoghi inflazionati di presenze. E’ come quel disperato senso di solitudine che colse Robinson Crusoe al suo ritorno tra gli uomini: una solitudine più grave di quanta ne patì nella sua lunga permanenza sull’isola deserta.

Carmelo Celona

14.04.2018