Il borgo antico di Castroreale: uno scrigno di qualità urbana e d’armonia sociale

Tra significanti arabi e significati aragonesi: segni ai quali ispirarsi per una duratura riabilitazione sostenibile

La crisi culturale, civile ed economica che stiamo attraversando impone con urgenza la prospettiva di concepire nuovi sistemi di aggregazione umana, nuovi modi di stare insieme in relazioni armoniche. A questa impellente necessità, forse ormai non più eludibile, occorre fornire risposte serie, soluzioni concrete, azioni che promuovono nuovi paradigmi. L’attuale crisi provocata dalla globalizzazione, che con i suoi regimi tecnocratici e finanziari sta distruggendo i diritti dei popoli e degli individui, la qualità della vita e ogni equilibrio naturale ed ecologico, va contrastata con una visione altra, con un’idea deformante, un’idea che può cambiare il corso di queste perniciose consuetudini. Il futuro è troppo incerto, oscuro, inaffidabile e imprevedibile. La crisi culturale ha depotenziato ogni capacità critica e reattiva delle popolazioni e dei singoli individui, scatenando una visione solipsistica del mondo. Un individualismo che pian piano sta cancellando la prospettiva dello stare insieme, il senso comune, il Cum Unis. In questo scenario l’idea del passato si trasforma in una condizione rassicurante e la sua riabilitazione è l’unica prospettiva accettabile e sostenibile. Ma dove trovare l’idea del passato nel presente?  Se si guarda il territorio le tracce più visibili e più concrete del passato sono i Centri Storici e i Borghi Antichi.  Sono questi i luoghi dove è ancora conservata, più o meno integra, la forma della nostra storia e di quel che è stata la nostra civiltà. Le città non sono più sicure e non svolgono più funzioni che producono redditività e benessere.  Il loro residuo funzionale si basa soltanto sulla rendita urbana, sulle rendite di posizione e sui monopoli commerciali sempre più in mano alle multinazionali e alla grande distribuzione, sull’assistenzialismo e il clientelismo politico e sulle strutture burocratiche e tecnocratiche che ne calibrano i livelli d’efficienza. Siamo alla ricerca di nuovi modelli esistenziali che soddisfino la dilagante domanda di fuga, il forte bisogno di mettersi al riparo dalla morsa cinica del capitalismo predatore e dalle nuove forme di schiavitù sempre più legalizzate. Si avverte un bisogno di quiete, di concretezza e di qualità di vita. Di una vita sicura, dall’orizzonte certo e rassicurante, una sorta di riparo esistenziale, quieto e concreto. Un bisogno di luoghi in cui vivere in sicurezza esistenziale e in armonia sociale, dove praticare un nuovo rapporto con le cose, con il territorio, con la natura, con il tempo. Luoghi dove si possano costruire inedite forme di vita. Oggi questo può avvenire solo nei borghi antichi, nei nuclei urbani di antica fondazione e nei loro territori rurali o marini. In questi luoghi si può restaurare il senso di sicurezza perduto e si può praticare il bisogno di riconciliazione con le nostre ataviche radici e con le nostre antiche identità. Questa prospettiva oggi può essere facilitata da quelle stesse tecnologie che hanno prodotto la crisi della post modernità, facendo di esse un uso opportuno li si può trasformare in strumenti fondamentali per una nuova armonia sociale sostenibile.

Il borgo antico di Castroreale

In questi giorni si sta imponendo all’attenzione dei media, con giusto merito, il borgo antico di Castroreale (candidato ad essere eletto tra i borghi più belli d’Italia).  Sorge nella provincia di Messina, disteso lungo i due bracci del crinale del colle Torace. Una piccola rocca, dei ponti Peloritani, ai cui fianchi scorrono, il fiume Patrì, ad ovest, e il fiume Longano, ad est. Il borgo si affaccia sul mar tirreno dominando ogni dettaglio delle Eolie, della penisola di Milazzo, dell’istmo di Marinello e della “mite” Tindari. Da Castroreale le “isole dolci del dio” dei venti, sembrano galleggiare tra mar e nuvole e lo sguardo va oltre, navigando verso la penisola di Elea, verso l’antica Pestum.

Castroreale, Castrum Regale: castello del re. Il toponimo si deve a Federico III d’Aragona, che riconoscendo la sua posizione strategica (gli fu molto utile per scorgere in anticipo le incursioni delle flotte angioine) la nominò Città Demaniale, ordinando nel 1324 l’erezione di un Castello Reale dove spesso soggiornava. Secondo i libri di carta questo fu il momento fondativo della città. E da quel momento segue tutta una narrazione ufficiale che racconta di spagnoli, sabaudi, austriaci, borbonici, piemontesi fino all’attuale autonomia repubblicana. Ma a noi questo libro di pietra fatto di quiete urbana e di rara qualità umana ci racconta altro. La sua massa architettonica, fitta e affastellata, quasi sdrucciola, con le sue strade, che, viste dall’alto, ricalcano l’antico impianto arabo e si dipanano come lunghi filamenti ramificati che ricamano la sommità cornuta del monte sul quale si adagia, ci narrano storie che non abbiamo trovato nelle fonti ufficiali. Ci dicono di vestigia di un vecchio porto di epoca romana in prossimità della foce del fiume Patrì, che oggi affiorano tra un moderno abitato e la riva del fiume medesimo, in località Portosalvo. Un fiorente porto fluviale attorno al quale in origine abitavano i castrensi e che furono costretti a lasciare a causa di una grave esondazione che distrusse porto e abitato costringendoli a ripetute migrazioni nell’entro terra in cerca di sicurezza e risorse alimentari certe.  Per avere un’altra città, forse, dovettero aspettare gli arabi tecnologizzati con i quali scalarono l’alto colle Torace, per fondare sul quel curvo crinale un centro abitato confortevole. Gli Arabi sapevano raccogliere l’acqua piovane nelle loro case cisterne (damusi) e su quel colle costruirono un raffinato sistema di raccolta delle acque (i catusi) di cui ancora si trova suggestiva traccia in quei cunicoli che attraversano la città e si collegano con i fondi delle abitazioni. Poi con le loro tecniche di irrigazione e di coltivazione resero fiorenti le campagne. L’antica Castroreale era una lussureggiante città araba, laboriosa e laica. Con il Castello posto in posizione dominante rispetto al labirintico abitato, con le moschee, i minareti, le madrase (scuole), i bagni, ecc… Insomma, una delle tante tipiche città arabe del mediterraneo e della Sicilia del IX e X secolo d.c..  A Castroreale, come in tutta la Sicilia, della città araba non resta nulla. Tutto eliminato dai Normanni e dagli Svevi, esecutori militari del furore strategico della Chiesa cristiana, il cui obiettivo era che non restasse alcuna traccia dell’Islam, tollerante ed emancipato. Ma, visitando il borgo si è di continuo attirati da inaspettati significanti arabi, tracce, segnali che disorientano il visitatore. Lungo le strade, negli edifici, nelle coperture delle chiese, nella concezione degli spazi urbani, ovunque, stilemi e segni arabi s’impongono alla nostra attenzione. Come se un genius loci ribelle volesse dirci: guarda che noi ci siamo stati, anche se ci hanno cancellato per non doverci raccontare.  Il Castello di Federico III sorge sui ruderi del Castello arabo distrutto dai Normanni. L’arco dell’antica Sinagoga, superstite alla cacciata degli ebrei dal borgo, è un arco arabo. Altre tracce ci dicono che la sinagoga sorgeva dove prima vi era una moschea. Il singolare sacrato affiancato alla cattedrale, che predilige l’osservazione strategica a discapito della socializzazione dei fedeli origina dall’impianto arabo (città chiusa, arroccata, inespugnabile con un balcone di vedetta). E poi le cupole rosate che emergono solenni dalla massa architettonica: quella elegante della Chiesa della Candelora e quella della Chiesa del SS. Salvatore. Questi due inconsueti elementi ci raccontano di una raffinata tradizione muratoria (importata dagli arabi) che si impose nelle fabbriche del culto cristiano. Le cupole rosate sono la cifra distintiva più raffinata del borgo. Sono un pregevole elemento di unicità. Uno stilema arabo, incancellabile, perché si è fatto archetipo. Un archetipo così forte che quando la calotta della cupola rosata del S.S. Salvatore è crollata, non essendoci più le abilità artigiane per ricostruirla, invece di abbatterla venne riparata, sovrapponendo, in chiave, un’improbabile raggera di tegole. Un gesto commovente, espressione del tentativo estremo di conservare, a tutti i costi, una forma che si riteneva preziosa, una forma che si sentiva essere identitaria. Oggi quella cupola rattoppata è uno degli elementi architettonici più raffinati e pregevoli del patrimonio artistico e culturale del borgo, sicuramente il più caratteristico. Ma gli arabi si segnalano ancora in certi toponimi, in alcune sfumature dialettali e nelle specialità gastronomiche. Uniche ed inimitabili: i biscotti della badessa e il riso nero. I primi (prodotti in origine dal convento delle suore di clausura) caratterizzati da un sapiente insieme di spezie aromatiche (cannella, chiodi di garofano e finocchietto selvatico) che nobilita e specializza una normale pasta brioche. Il secondo un gustosissimo e prelibato risotto dolce, color nero di seppia. Questa particolarità cromatica è dovuto ad una speciale tostatura e abbrustolimento di mandorle che insieme alla cannella e altre spezie ne costituiscono gli ingredienti. Probabilmente si deve agli arabi anche la presenza secolare di una comunità ebraica (furono loro ad insediare in Sicilia massicce comunità giudaiche provenienti dall’area arabo-magrebina). La zona est del borgo, che si affaccia sul Longano, per secoli fu il Ghetto ebraico. Questa comunità presto assunse una posizione preminente nella struttura sociale della città, al punto che, dopo gli editti di Isabella di Castiglia che espelleva gli ebrei dai suoi domini, molti di loro “Per interessi economici non da poco“, come direbbe Paolo Faranda, raffinato cultore di Storia Patria ed esperto conoscitore del patrimonio culturale del borgo antico, furono costretti a convertirsi al cristianesimo. Si trattò di false conversioni per non rinunciare a una grande mole d’affari. Essi già a quel tempo, oltre a gestire molti latifondi e la gran parte dell’economia agraria, gestivano il Monte di Pietà, oggi Palazzo Peculio, sede del Comune. Per capire come andavano i processi economici a quel tempo basta osservare la fontana che si trova all’ingresso della piazza antistate Palazzo Peculio (un tempo ad esso addossata) nella cui cornice decorata con inequivocabili simboli giudaici è scolpito, in latino, un distico elegiaco che dice: “Qui i nostri avi costruirono il Monte di Pietà. Quello vi tolga la fame quest’acqua vi possa dissetare”. Tutto ciò può spiegare il carattere operoso e operativo dei castrensi, pragmatici, determinati ma al tempo stesso generosi ed ospitali. Ed è con questo carattere che stanno resistendo all’attuale grave crisi che fa registrare nel borgo un notevole calo demografico, una perniciosa diaspora di giovani, l’obsolescenza di tante funzioni un tempo attive: bar, ristoranti, caserme, conventi, funzioni urbane e i luoghi di aggregazione, palazzi signorili abbandonati, l’Ostello della Gioventù, attrattore antropico di scala internazionale, ormai da anni chiuso. Persino la famigerata rassegna di “Castroreale Jazz”, che richiamava pubblico da tutta la Sicilia, sta perdendo pezzi: quest’anno si è divisa tra il borgo e Milazzo. Un’altra grave mutilazione operata dalle leggi di mercato. Queste sottrazioni sono espressione di una afasia progettuale della politica che pur amministrando un giacimento culturale come questo incantevole borgo non riesce a produrre un palinsesto culturale e civile che protegga la comunità dal rischio di un fatale tracollo sociale.

Nondimeno, in questo luogo, che sembra incantato, dove ad ogni angolo appaiono miraggi che ci parlano del passato, incantesimi che evocano moschee e minareti e dove si sente l’odore di grandi civiltà pregresse, scopriamo due presenze inaspettate. Due eccellenze dell’attualità castrense. Apprendiamo che nel borgo vi è un Planetario Astronomico Digitale, unico della provincia di Messina, curato dall’associazione astrofila ”Andromeda” presieduta dall’ing. Paolo Faranda. Una struttura che attira studiosi e studenti da ogni dove, registrando una presenza media di centinaia di visitatori al mese. Altra mirabile sorpresa è il Museo delle Moto d’Epoca. Unico in tutta l’Italia meridionale. Si tratta di una sbalorditiva collezione scientifica e dinamica: ogni esemplare esposto oltre a rappresentare un’epoca, una specifica concezione meccanica, uno stile e una cifra artistica è in perfetta efficienza, pronto ad essere messo su strada e ad intraprendere lunghi viaggi. Nel libro dei visitatori, di questo museo, ormai da tempo inserito nel circuito dei musei d’eccellenza segnalato dall’Assessorato Regionale alla Cultura e al Turismo, diretto e curato dall’impareggiabile esperto Enrico Munafò, negli ultimi quattro mesi si leggono oltre 4000 firme (mille visitatori al mese).Queste due eccellenze sono gli unici efficientissimi attrattori antropici del luogo, in grado di muovere verso il borgo masse di visitatori in ogni stagione. Sono un esempio lampante di come le specializzazioni funzionali dei borghi e dei centri storici determinano salutari flussi turistici. La loro attività, presto, dovrà essere strutturata e supportata da un piano strategico di sviluppo culturale che valorizzi in modo sostenibile l’intero borgo e le sue unicità e sostenga queste iniziative d’eccellenza, le quali basate solo ed esclusivamente sullo slancio volontario di alcuni, potrebbero rischiare cadute motivazionali.

Questo borgo ha tutte le risorse per potersi riabilitare, per tornare in salute. Servono idee e soluzioni efficaci che facciano del medesimo un contenitore di vita. Di vita di qualità. Un luogo dove si sviluppino processi sociali armoniosi attivi all’attualità ed interpreti del futuro. Il borgo va rifunzionalizzato affinché diventi un attrattore antropico permanente attrezzato e senza rischi di sterilità di ritorno. Va valorizzata l’alta qualità della vocazione agricola e di quella culturale, portando non la modernità nel passato ma il passato nella modernità. Il borgo può essere il luogo dove cominciare la nuova quieta vita che cerchiamo.

Carmelo Celona

14.03.2018