L’architettura dell’inclusione

S. Maria di Mili, S. Pietro di Itala, SS. Pietro e Paolo d’Agrò, le matrici di una grande bellezza

 

In città si sentiva la campana di una chiesa novella, il salmeggiare dei monaci di un nuovo convento, il grido che dai minareti alzava il Muezzin, chiamando alla preghiera i credenti. Presso il culto latino, modificato secondo le norme della liturgia gallicana, vigevano i riti e le cerimonie dei greci; ed insieme le discipline e i precetti della legge mosaica. Le strade, le piazze, i mercati offrivano una singolare mescolanza di costumi e di fogge: il turbante orientale, il bianco mantello degli Arabi, la ferrea maglia dei cavalieri normanni, il corto saio italiano, la lunga tunica greca; differenza d’inclinazioni, abitudini, feste, esercizi, spettacoli: contrapposti infiniti e continui.” Così ci racconta la Sicilia normanna Isidoro La Lumia nella sua: “Storia della Sicilia sotto Guglielmo il Buono”.

Da questa integrazione multietnica nacque in Sicilia una cultura unica, ricca e complessa che ebbe la sua espressione più significativa nell’arte e soprattutto nell’architettura. I Normanni, erano dei cavalieri erranti senza un vero e proprio radicamento culturale. La loro identità fu l’elaborazione e l’assorbimento del meglio di tutte le culture dei territori che furono in loro dominio. Regnarono nell’isola per un periodo relativamente breve (1061-1189). In soli 128 anni riuscirono a dare alla Sicilia un volto nuovo (anche in senso genetico: mischiando occhi neri con improbabili occhi azzurri, capigliature corvine con inverosimili capigliature bionde) e una nuova estetica che divenne l’archetipo più marcato dei siciliani. I “Northmen”, ovvero gli “uomini del nord”, svilupparono in Sicilia un linguaggio architettonico di universale valore artistico e culturale. Una cifra stilistica scaturita dalla necessità di includere nel loro patrimonio espressivo tutti i segni e i verbi delle culture che li avevano preceduti e che scaturiva da un lessico che si è formato man mano che questi guerrieri procedevano nel loro percorso di conquista, dal nord Europa fino al cuore del mediterraneo: a Palermo, dove raggiungerà il suo apogeo. Un verbo che durante un cammino verso sud fatto di battaglie, di scontri politici e militari, si riempie e si svuota, si contamina di tutto ciò che trova nei luoghi e nelle aree geografiche che il contingente militare normanno occupa.

L’ Architettura Arabo Siculo Normanna è l’espressione di una conquista militare, che traduce i termini di una bellezza rapita, conquistata con le armi, sottratta con la forza, contrattata con l’abilità politica e con la negoziazione. Una bellezza assorbita e manipolata per rappresentare un nuovo potere militare con linguaggio nuovo, fatto di parole conosciute e comprensibili. Una ieraticità marziale che si ingentilisce per essere accettata e per integrarsi nelle radici culturali dell’isola. L’architettura dei Normanni in Sicilia rappresenta un’evoluzione linguistica che raggiunse una semantica di valore artistico universale, tramutandosi nell’espressione icastica di un’aggregazione che man mano che la campagna bellica svolge il suo percorso geografico, evolve arricchendosi di contenuti formali e tecnici. Un grande risultato che deve attribuirsi alla qualità degli ingredienti preesistenti ma sopratutto alla capacità di un potere militare di assorbire, riplasmare e restituire questi ingredienti come un nuovo patrimonio culturale e segnico in cui il popolo immediatamente si riconosce. Fu una delle più riuscite operazioni strategiche finalizzata al radicamento veloce e accettato di un potere estraneo al luogo conquistato, là dove il luogo aveva forti e radicate identità formali. Lo stile Normanno giunge in Sicilia già contaminato dalle esperienze campane, pugliesi e calabre, dove il suo portato romanico fu già contaminato da spunti arabi e influenze bizantine. I Normanni portarono in Sicilia una identità linguistica consolidata nelle Cattedrali di Trani, Bari, Gerace, nel chiostro di Amalfi, ecc., che mutava strada facendo attraverso un lento processo evolutivo, di perfezionamento e di implementazione. Un processo semantico che in ogni tappa, di un epico cammino lungo tutta l’Italia meridionale, espresse particolarità uniche e al tempo stesso declinò ovunque la categoria dell’inclusione.

 

L’architettura inclusiva

Ogni architettura rispetto al luogo in cui si insedia può assumere tre tipi di significante: un atteggiamento integrativo (di assoluta integrazione al sistema vigente rispettando i codici locali e riproponendo integri i segni conosciuti); un atteggiamento eversivo (di rottura con il contesto e con la tradizione del luogo imponendo forme e funzioni che chi vive quei luoghi non riconosce); un atteggiamento inclusivo (offrendo cifre che fondono nuovi linguaggi con i codici locali in modo da non determinare fratture con la tradizione ma evolvendo il preesistente). Quest’ultimo fu l’atteggiamento delle architetture normanne in Sicilia. Assorbirono la tradizione greca, quella bizantina, quella araba, fondendole con il romanico di provenienza, raggiungendo semantiche architettoniche che restano ancor oggi insuperate. Uno stile singolare, ieratico e dinamico al tempo stesso. Una marca che adatta segni di eterogenea estrazione multiculturale al nuovo costume cristiano. I Normanni cancellarono la concezione spirituale dei segni precedenti, ma non quella fisica: quasi sempre fu mantenuta l’ubicazione dei luoghi di culto e ovunque furono riproposti i precedenti stilemi, ma in versione cristiana. In Sicilia non è rimasta traccia di nessuna moschea. Solo a Palermo ne furono distrutte 300. L’estetica dei normanni, in Sicilia fece da filtro con le culture che l’hanno anticipata: oggi diremmo che fu un perfetto “mediatore culturale”.

Ormai da secoli l’Architettura Arabo Siculo Normanna è l’archetipo più forte della Sicilia, ed è un archetipo multiculturale. I suoi segni, alcune sue forme, sono il significante più forte dell’identità isolana. È, indiscutibilmente, il marchio dell’identità culturale della Sicilia. Ancor più dell’anacronistico e reazionario “Barocco Siciliano” che nel ‘700 contribuì in modo significativo a spegnere le spinte relativiste nell’isola. Questo verbo ha marcato più di ogni altro linguaggio il territorio divenendone la cifra multiculturale distintiva, l’icona culturale. Un’icona dalla semantica multi linguistica che ancora oggi, dopo millenni, rappresenta la sintesi plastica della millenaria cultura siciliana. Uno stile, che con la sua espressività segnica inclusiva va oltre il senso dell’architettura: equilibrio perfetto tra forma e funzione, armonia degli spazi e proporzione tra i suoi elementi. Si spinge verso l’interpretazione di sentimenti etici alti. Fattori sui quali si fonda il suo grande valore artistico e culturale universalmente riconosciuto. l‘Architettura Arabo Siculo Normanna è innovazione e al tempo stesso comprensione. Innovazione è non novità (evoluzione dell’esistente). Comprensione è non nuovo senso. È l’espressione più icastica di una secolare multiculturalità: che è l’essenza della Sicilia.

 

Le matrici di una grande bellezza

Questa esperienza espressiva, unica, ebbe inizio con lo sbarco in Sicilia del 1061, dove i Normanni trovarono un vasto patrimonio stilistico, da coniugare al loro bagaglio estetico, che si era, via via, formato lungo il meridione d’Italia.  Il percorso di conquista dell’isola di Ruggero I partì da Messina verso due direzioni: una verso Catania e la Val di Noto e  l’altra verso la Valdemone, Palermo e la Val di Mazzara. Le prime opere di Architettura Arabo Siculo Normanna furono realizzate durante l’avanzata prudente del Conte Ruggero e sono espressione di un primo momento di comprensione e di adattamento alle culture locali e di una cauta affermazione su di esse.  Dal punto di vista lessicale rappresentano un’espressione prototipa, una vera e propria palingenesi, di quello che sarà la sofisticazione panormita di questo stile. Le opere che Ruggero I realizzò nell’attuale provincia di Messina rappresentano un autentico laboratorio sperimentale che si specializzò nella realizzazione di una serie di abbazie politicamente strategiche. Senza questa sperimentazione forse non avremmo avuto la magnificenza stilistica della Cattedrale di Cefalù, di Monreale e di Palermo e di tutte le fantastiche ecclesie munite di cui Palermo e la Val di Mazzara sono inflazionate.

Le architetture della prima fase, erette nel territorio messinese, rappresentano la matrice austera, il prototipo tecnico dello Stile Arabo Siculo Normanno. Tesori architettonici di grande abilità artigiana e grande valore artistico come: la chiesa dell’abbazia di San Pietro a Itala che rappresenta l’apice di una evoluzione tecnica, che successivamente sarà raffinata, ingentilita, abbellita, ma mai più superata; la chiesa dell’abbazia di San Pietro e Paolo d’Agrò a Casalvecchio con la sua ansiosa e ritmica policromia che interpreta, in modo marziale, tutti i canoni del romanico in chiave arabo bizantina, imponendosi come una delle architetture più importanti di tutta la Sicilia, non solo normanna; i prototipi della chiesa dell’abbazia di San Maria di Mili e dell’ Abbazia di S.Filippo da Fragalà a Frazzanò. Quest’ultima, severa struttura fortificata dominante i Nebrodi e il mar Tirreno, al cui interno si conservano ancora simboli cavallereschi, la cui monofora posta all’ingresso, con arco sopraciliare, di incantevole bellezza, rappresenta il primo esempio conosciuto di quello che sarà il repertorio caratteristico di tantissime delle architetture maggiori del grande stile siciliano.  La chiesa di San Maria di Mili  è un’architettura che commuove e intenerisce per il suo essere embrione di tutto il campionario stilistico che l’intero stile declinerà nella sua evoluzione. Un’opera che racchiude in sé tutta la cifra de “la bellezza dell’idea originale“. Una bellezza da troppo tempo nel degrado e nell’abbandono, nonostante l’attenzione sensibile di cittadini e studiosi, vittima della distrazione incolta degli amministratori.

San Maria di Mili è la matrice traballante e imperfetta di quell’esaltante straordinaria versione panormita che raggiunse l’apogeo nell’abside di Monreale, dove l’intreccio degli archetti in varia scala rappresenta la metafora di un ordito di culture e tecniche eterogene che diversamente, da sole, non avrebbero prodotto mai una magnificenza simile. Archetti che si sovrappongono, si incastrano, dialogano vibranti, si assorbono l’un l’altro, in un gioco vorticoso e sublime che esprime in un ritmo armonico tutta la sua sublime bellezza e il suo immenso valore culturale. La sintesi plastica di una cultura secolare fatta di un intreccio perpetuo di popoli e culture diverse. Un intreccio di archi, dalle radici nel lontano mondo arabo, che viene rielaborato da uomini del nord Europa quasi ad alludere ad un bisogno di aggregazione e di dialogo, come quando per farci accettare in terra straniera usiamo gli idiomi del luogo.

Indagando queste architetture “primitive” si comprende l’inizio di un processo di grandissimo valore artistico. Questa percezione è più efficace e netta se si leggono i dettagli di queste opere, che rimandano chiaramente ad architetture più illustri. Quei particolari (come gli archetti incrociati e le monofore) sono come quelle sfumature fisiognomiche che ci consentono di individuare il legame tra genitori e figli. Il commovente tremolare delle archeggiature di S. Maria di Mili, il ritmo perfetto e struggente degli archi incrociati di S. Pietro di Itala e quello ansioso e policromo di S. Pietro e Paolo d’Agrò additano manifestamente alla sublimazione trionfale dell’abside del Duomo di Monreale. Queste architetture sono inestimabili cammei del Genius loci della Sicilia e i prototipi di un processo culturale ed estetico di valore universale che ci aiutano ad intuire la forma del passato dell’isola e di Messina e i suoi dintorni. A Messina, dopo il mitico Stretto e il suo mare, sono i più forti archetipi del territorio. Sono l’emblema della secolare cultura inclusiva della città, rappresentano l’identità secolare più autentica (l’unica che c’è rimasta). Sono il segno dell’esordio incerto, intriso di complesse contraddizioni, di un processo culturale ed estetico di rara bellezza. I loro archetti incrociati ci raccontano di quel senso dell’accoglienza e dell’integrazione, che ha sempre caratterizzato i siciliani, e che vediamo oggi essere mortificato dal cinismo speculativo con il quale si stanno gestendo i processi migratori in atto.

 

Se è vero che l’architettura è un’idea che prende forma, forse è il caso di recuperare l’antica sensibilità, ispirandosi alle chiese di Mili, Itala e Casalvecchio, proprio perché quegli archetti, altro non sono che un autentico e vero incrocio di popoli e di culture.

Intrecci realizzati da una sapienza solidale e umana che un tempo avevamo nell’anima e che abbiamo scolpito nelle nostre pietre più belle e che oggi non sappiamo più ritrovare né dentro di noi né dentro le istituzioni che ci rappresentano. Evidentemente non siamo più capaci di sentimenti così nobili. Evidentemente non siamo più all’altezza dell’identità secolare di un’isola metafora della bellezza e della multiculturalità.

 

Carmelo Celona

 

16.11.2017