Le città dei Baroni in Sicilia: Pachino
Un luogo dove le chiese sono messe in un canto e la razionalità del disegno urbano non si impone sulla mente di chi, nell’unica piazza, orienta le panchine verso l’isolamento.
Il vero passaggio dalla Preistoria alla Storia avviene con il primo insediamento urbano e non con la scoperta della scrittura o di altre forme espressive: il primo insediamento urbano è la prima concreta forma di narrazione non verbale. Se la scrittura racconta il pensiero dell’uomo la città narra come egli vive. Le città sono organismi costruiti dall’uomo che narrano il loro passato, che raccontano la loro storia e la loro identità attraverso le loro architetture, i loro spazi, la loro geometria, i monumenti, le strade, i palazzi, le chiese, la loro massa architettonica e il loro disegno in pianta. Sono palcoscenici nei quali si è svolta e si svolge la storia: quella maggior e quella minore, quella alta e quella minima. Sono l’elemento fisico di ogni narrazione storica di popoli e comunità. Le città sono la forma della storia, la forma della cultura, dell’etica, della morale, degli usi, delle abitudini, delle tradizioni, della mentalità di chi le abita. La forma delle città e la forma mentis di chi le ha concepita e di chi la vive. La città è un intreccio infinito di relazioni tra le misure e le geometrie dei suoi spazi e gli avvenimenti ordinari e straordinari che in essa accadono durante il corso della sua storia. Così la città racconta processi civili, economici e culturali siano essi virtuosi di riconoscimento dei diritti, di evoluzione civile e di armonia sociale o involutivi, di esclusione, discriminazione, ingiustizie, di asimmetrie di trattamento. Vi è un evidente rapporto diretto tra forma delle città e civiltà.
Le città dei baroni
In Sicilia, forse più che altrove, le città sono libri di pietra, dove ogni dominazione ha scritto il suo capitolo. Capitoli più o meno lunghi e più o meno integri. Sovente chi ha scritto il capitolo successivo ha strappato quello precedente o ne ha cancellato le pagine per riscriverci sopra. Quando si scrive su pagine già scritte, per quanto si presti attenzione a cancellare, di quanto vergato prima resta sempre una labile traccia. Così su quelle pagine i segni vecchi e i segni nuovi si mischiano, tutto si confonde, e va decodificato. Ma nell’Isola ci sono anche molte città di nuova fondazione, facili da leggere, che presentano una fenomenologia tutta siciliana. Esse si dividono in due tipi: quelle ricostruite in epoca moderna dopo calamità naturali come l’erezione dell’Etna del 1669, il terremoto della Val di Noto del 1693, il terremoto di Messina del 1903, l’eruzione Vulcanica del 1928 e il terremoto della Valle del Bèlice del 1968, catastrofi che hanno cancellato città di millenaria fondazione come Noto, Avola, Augusta, gran parte di Catania, Messina, Mascali, Gibellina; e quelle, moltissime, costruite ex novo attraverso la “Licentia Populandi”. Un istituto del quale, le Corone di turno, fin dal 1600, hanno fatto largo uso per tenersi buoni i baroni, riconoscendo lo jus edificandi sulle loro vaste proprietà terriere. Ai latifondisti veniva rilasciata la “Licentia edificandi”, ossia la possibilità di edificare nuove città funzionali al ripopolamento dei loro feudi. Un ripopolamento mirato ad incrementare la produzione dei terreni e quindi le loro ricchezze. Veri e proprie città di servi della gleba. Villaggi popolati solo di braccianti legati ai terreni del feudatario che concedeva loro un alloggio in cambio del loro fedele operato. Nuclei urbani dove il barone esercitava sulla popolazione il Mero et Mixto imperio: un privilegio medievale che il Re concedeva ai feudatari, consistente nell’esercizio di tutti i poteri politici, amministrativi, fiscali, militari, giudiziari su tutti coloro che abitavano le loro terre. In forza di questo privilegio il barone, nelle nuove città amministrava la giustizia, ed era delegato del Re nella gestione amministrativa di polizie locali e nella amministrazione dei tribunali civili e penali. Insomma aveva il controllo assoluto della popolazione ed era padrone delle sue sorti. Le città dei baroni erano costituite da un’edilizia povera prevalentemente fatta di case terranee. Spesso erano i latifondisti stessi che ne disegnavano gli impianti e localizzavano al loro interno le funzioni. Era il feudatario che stabiliva gli spazi da destinare alla rappresentanza di altri poteri, dove collocare il palazzo padronale, la piazza principale, le chiese, ecc.. Ovviamente niente scuole e servizi sanitari: i primi troppo pericolosi i secondi troppo costosi. Erano città fintamente sotto il dominio del Regno, in realtà furono vere e proprie città padronali, prevalentemente laiche. Chi fondava queste città era padrone di tutto, cose mobili e immobili (ius primae noctis compreso). La Chiesa veniva riconosciuta solo nella misura in cui a rappresentarla, nella qualità di vescovo o di alto prelato, fosse un rampollo della famiglia. Così baroni, Chiesa e clero vivevamo in una trasversale complice simbiosi che rafforzava e ampliava il controllo sulla popolazione. Il potere dei baroni era un potere terzo a quello laico del Re e a quello religioso della Chiesa. Un potere senza ideologia e ideali e meno che mai sentimenti spirituali, praticava solo privilegi inconsulti in forza di grandi profitti economici. Erano padroni e politici allo stesso tempo (deputati, ministri, funzionari demaniali, ecc..). Godevano di privilegi che essi stessi si conferivano a discapito della popolazione, ponendo sostanzialmente in condizioni subordinate ogni Corona. L’ontologia delle città dei baroni non guarda certo al relativismo europeo, ma si rifà al medioevo più feroce e ingiusto. Le loro ricorrenti piante rigidamente a scacchiera, sono espressione di una pragmatica semplificazione che si serve prosaicamente dell’angolo retto per abbattere i costi di realizzazione. L’utilizzo della scacchiera razionalista solo perché idonea ad insediare nuove comunità la cui struttura sociale prevedeva due sole figure: il padrone e i servi. A latere i preti e qualche soldato del Re. Il barone aveva facoltà di formare un suo corpo di polizia costituito da uomini di sua fiducia, che non facevano rispettare la Legge ma gli interessi del padrone, poiché gli interessi del padrone erano la Legge. Così nascono i campieri (guardie campestri): vere e proprie guardie private che controllavano e mantenevano l’ordine nei latifondi e nelle tenute agricole, con lo scopo di controllare e intimidire, ove ve ne fosse bisogno, gli afflitti contadini. Così nasce la mafia: anche dalle ‘licentia populandi’.
La città di Pachino
Un esempio singolare di città padronale è Pachino. Città di nuova fondazione fatta sorgere su un dolce altipiano che declina lievemente verso i due mari divisi dalla punta di Capo Passero: una lingua di terra che addita la rotta verso l’oriente. Il punto di contatto più immediato tra l’isola e tutte le civiltà orientali che l’hanno dominata: fenici, greci, bizantini, arabi. Ultimo lembo dell’isola che guarda ad oriente. Luogo che spartisce il vento. Margine impalpabile tra ionio e mediterraneo. Approdo magico per le civiltà lontane cantato da Omero, Virgilio e Dante. Un pianoro fertilissimo dove i greci impiantarono la vite e i romani coltivarono con successo il grano usando i due porti naturali di Marzamemi e di Portopalo per negoziarlo. La terra era così fertile che non se ne poteva sprecare nemmeno una salma per costruire abitati: così i contadini vivevano nelle grotte di Malafarina. Poi arrivarono gli arabi e misero a reddito il mare pescoso, costruendo uno dei manfraggi più belli della Sicilia funzionale la tonnara di Marzamemi, e cominciarono a pescare il tonno più pregiato: quello magro, quello di ritorno, che ha già depositato le uova nell’alto Tirreno.
In questo luogo magico nel 1760 i baroni Starabba ottennero la licenzia populandi da Carlo di Borbone, a condizioni che la nuova città venisse popolata da greci e albanesi, dai loro costumi culturali e dai loro culti religiosi: uno schiaffo al clero locale un po’ troppo gesuita per i gusti del Re. Ma stranamente in questa sorta di Eldorado non si trovava nessun ortodosso che voleva andare a viverci. Così dopo un anno i feudatari, menti raffinatissime, ricorsero ad un espediente, complice l’ignoranza del regio ispettore: insediarono in ognuno dei primi 50 fuochi (povere casette terranee) un maltese spacciandolo per greco. I maltesi parlavano straniero ma erano di religione cattolica. Ecco come nasce la città di Pachino.
Una città la cui forma in pianta è unica. Un tessuto urbano costituito da una scacchiera fitta. Una maglia ortogonale dal passo costante, senza pause. Senza una smagliatura. Un solo buco nella sua rete fitta di strade lineari. Un buco anch’esso regolare e forzatamente modulare, come se qualcuno avesse tolto quatto maglie dal centro della rete. Pachino guardandola dall’alto sembra una terra in gabbia. Vie dritte che si incrociano ossessivamente tutte ad angolo retto. Da ogni incrocio, ruotando lo sguardo, ogni 90°, è possibile scorgere simultaneamente, come se si collimasse attraverso uno “squadro”, alla maniera degli agrimensori di un tempo, (così come certamente han fatto coloro che hanno tracciato la città nel 1760 ): a sud-est il verde smeraldo del Mar Mediterraneo; a nord-est l’azzurro intenso del Mar Ionio, a nord-ovest le vigne del Nero d’Avola e a sud-ovest i campi e le serre dove si coltiva il pomodoro ciliegino. In questo ambiente urbano fitto non ci sono pause, l’incedere e costretto: dalla casa alla piazza, dalla casa ai campi o al mare. Non ci sono giardini, slarghi, fontane, non ci sono sacrati, non ci sono spazi antistanti le scuole, non ci sono cortili, bagli. Niente che possa consentire la sosta, il tessuto urbano non ha pause per socializzare. L’unico vuoto è l’unica piazza: centrale e quadrata. Luogo dove, ancora oggi, si ritrovano i contadini e i proprietari, al ritorno dai campi per fare bilanci, pagare giornate, prendere accordi per le giornate successive, cercare e dare lavoro. Oggi come ieri la piazza è luogo di caporalato, di sfruttamento del lavoro. Ieri i jornateri (beneficiati dal padrone del feudo di un po’ di lavoro), oggi sciami di extracomunitari che sostano in attesa di essere arruolati per una giornata nei campi per la vite o per i pomodori. La piazza, un tempo dominata da due palazzotti signorili, dai cui balconi si affacciavano dei baroni fondatori (Giuseppe e Gaetano Starabba), oggi è dominata da una banca, ospitata in un palazzo in stile Deco, ubicata anch’essa in posizione centrale sul lato nord della stessa. La Chiesa Madre del SS. Crocefisso resta defilata nell’angolo a nord-ovest, chiusa da un lato, con una sola navata e l’abside avvolto da costruzioni. La Cattedrale non ha un minimo di sacrato per la rituale sosta festiva: evidentemente tutti gli incontri dovevano avvenire solo nella piazza, sotto gli occhi del barone. Essa è una delle poche Matrici della Val di Noto che non declina la suggestiva cifra barocca, ma si limita ad un afasico linguaggio neoclassico, segno che durante la sua fabbrica non è stato richiesto nessuno dei tanti famosi preti architetti dell’epoca, che tanto hanno operato nella zona (Fra Alberto Maria, Rosario Gagliardi, Mario Spada, Francesco Sortino, Vincenzo Sinatra, Paolo Labisi, ecc..), per stupire e suggestionare la popolazione con volute fantastiche, mistiche colonne tortili, meravigliosi archi spezzati, ecc.. Tutto ciò la dice lunga su quanto fosse flebile il potere contrattuale della Chiesa locale ai tempi della fondazione della città.
Dentro il regolare tessuto urbano tutto è spartano, essenziale: edifici “moderni”,massimo a due piani, sorgono in sostituzione delle originali povere case terranee. La città non ha altra funzione se non quella abitativa e commerciale. Non ci sono scuole e i presidi sanitari all’interno del nucleo originale. Segno che chi l’ha concepita ha sfruttato tutto lo spazio per popolarla di forza lavoro, di braccianti, di servi della gleba, ai quali non ha concesso nessuna distrazione e nessun servizio. Le scuole elementari stanno ai margini del tessuto urbano, sintomo di una tardiva concezione. Il primo complesso scolastico chiamato: “I Scoli Vecci” (le scuole vecchie) è stato costruito nel 1936 dal regime fascista. Niente spazi urbani non controllati, niente servizi: troppo costosi. Le ““Licentia Populandi” prevedevano che la costruzione dei nuovi nuclei abitati fosse a carico dei feudatari. Nasce così una comunità sotto l’egida del barone. Una popolazione di contadini schiavi che vive dentro un alveare senza spazi di relazione. Un organismo urbano che paradossalmente ripropone la stessa solitudine delle campagne e non lascia spazio né a diritti né a rifugi spirituali. Così quel disegno razionale, che sulle prime può sembrare di estrazione illuminista, frutto del pensiero progressista ed egalitario, si svela essere un significante reazionario, padronale, latifondista che racconta una storia fatta di soprusi, inganni, sfruttamento delle risorse naturali e delle risorse umane.
Il disegno urbano di Pachino racconta di una colonizzazione a basso costo che dalla sua fondazione ad oggi non ha mai rispettato né il territorio né chi lo abita: dai baroni Strarabba che dalla lontana Piazza Armerina si insediarono in terre non loro, acquisite grazie ad un matrimonio d’interessi tra feudatari; al marchese di Rudinì, potente uomo politico, che importò un vitigno forte e scuro dalla lontana California resistente alla filossera che uccideva le sue viti, che chiamò Nero d’Avola, costruendo le sue cantine private a Marzamemi per sfruttare il porto naturale e commerciare meglio i suoi vini da taglio con i francesi, distruggendo l’economica millenaria delle tonnare, fiorente e perequata; fino alla multinazionale israeliana HaZera Genetics che vende ai pachinesi, che sudano nelle serre e sui campi, i semi sterili del famoso pomodoro ciliegino. Si! Il tanto rinomato pomodoro di Pachino è un Ogm prodotto da una multinazionale israeliana che lo ha sperimentato con successo, nel 1989, nelle fertili terre della pianoro: una nuova schiavitù di ritorno, una lucida metafora dello sfruttamento secolare della fertilità delle campagne a discapito della popolazione contadina, che nonostante la fertilità del terreno visse gravi periodi di carestia, stenti ed emigrazione. Ancora oggi il feudalesimo a Pachino pare non esser finito: banche che prosperano e multinazionali che fanno affari. I contadini sono passati dalla schiavitù dei baroni a quella del capitale e della finanza. Vitigni venduti a case vinicole straniere e pomodorini (IGP) prodotti in Camerun e venduti nei supermarket della città ad 1.39 euri al kg, quando per produrli in loco non bastano 2,50. Nessuna nuova ricchezza pare abbia migliorato le condizioni di vita degli autoctoni. Qui non sembra esserci traccia delle lotte contadine del secondo dopo guerra, della riforma agraria, della legge Gullo, delle lotte sindacali dei coloni. In questa terra come un solitario trampolino sul mare, si sente la solitudine di cui parla Giuliana Saladino nel suo “Terra di Rapina”: “Nella solitudine siciliana ciascuno gioca la sua partita contro il resto del mondo.” La stessa solitudine delle panchine dell’unica piazza, che orientate verso le strade che la delimitano, non consentono a chi le usa alcuna socializzazione, permettono solo di guardare tristemente il costante carosello di macchine che scorre intorno in cerca di parcheggio. Qui anche le panchine continuano ad interpretare la forma mentis dei vecchi baroni. Affascina solo il mare azzurro/verde, unico elemento di libertà.
Carmelo Celona
19/08/2017