Dai Centri Storici ai Centri Commerciali: dalla memoria al morbo di Alzheimer
Le città sono fatte di “luoghi”, e questi sono i luoghi dove abitano le emozioni, dove sono conservati i ricordi, collettivi ed individuali. Piazze, palazzi, fontane, giardini, monumenti, simboli, ecc.., dove s’identifica chi li abita. Luoghi ove fiorisce un rapporto identitario tra l’uomo e il contesto urbano. Luoghi che sono vere e proprie carte d’identità dei popoli.
Ormai da tempo questi “Luoghi” si sono trasformati in “non luoghi”, in luoghi urbani dove il rapporto tra luogo e chi lo abita è diventato perverso, alienante. Un rapporto di terribile estraneità e di assenza di riconoscimento. Il cittadino non si riconosce in quei luoghi, non s’identifica, non ci appende più i propri ricordi, non vive il presente e non immagina il futuro. Del resto chi si può riconoscere in un Eurospin, in un Ikea, in un Centro Commerciale Auchan, in un Ipermercato?
Strutture che ormai da tempo hanno colonizzato molti luoghi identitari delle città facendo di questi delle carte d’identità strappate. Carte d’identità senza identità. Carte d’identità dove manca la foto del titolare, documenti anagrafici senza personalità, tutti uguali, senza connotati specifici, che riportano tutti la stessa foto. Carte d’identità fasulle. Il classico documento falso, con il quale circolano coloro che vogliono nascondere la loro vera identità.
Questi “non luoghi”, non più episodici o occasionali nello spazio urbano, presentano una frequenza inquietante sul territorio. Le città ne sono invase. Essi si sono espansi a dismisura e moltiplicati in modo esponenziale, epidemico. L’eccessiva colonizzazione di questi “non luoghi” stanno facendo diventate le città stesse delle “non città”. Hanno contaminato paesaggi, deformato la fisionomia del territorio, compromesso integrità ambientali ed equilibri ecologici, esattamente come fecero gli insediamenti industriali del secondo dopo guerra, con l’aggravante che questi sono di gran numero superiore, di localizzazione capillare e non portano lavoro, al massimo schiavitù. Non c’è città o zona di città che può resistere alla loro invasione. Sono come un male non curato che si è diffuso in tutto l’organismo, un cancro trasformatosi in metastasi. Arrivano dall’alto, imposti da poteri sopra ordinati a quelli locali e pure a quelli nazionali, in “deroga” (in barba) agli strumenti urbanistici. E’ quella deroga alle leggi che si riconosce più al capitale, alle banche, che ai terremotati.
“Questa è la postmodernità …. bellezza!!”. Sono l’espressione di come la globalizzazione condiziona il localismo. Ormai, da tempo, città e cittadino sono due universi separati l’uno dall’altro. La città (intesa come spazi urbani, infrastrutture, funzioni civili, servizi sociali e chi li amministra, li determina, li progetta, li realizza, li gestisce e li manutiene) non riconosce i cittadini e i loro non si riconoscono nella città. Siamo nell’epoca del cittadino self made man, alla faccia dello Stato democratico e rappresentativo. La città non fa più i cittadini e loro non fanno più le città. I cittadini non orientano più le scelte sulle città e queste non hanno più come scopo primario migliorare la vivibilità urbana e la qualità della vita, ma, nella migliore delle ipotesi, quadrare i bilanci.
Nelle poche città che ancora apparentemente funzionano, si assiste alla realizzazione di spazi comuni pieni di suggestioni senza funzioni nè scopi sociali. Città piene di eventi (Olimpiadi, Esposizioni Universali, Biennali, sagre, cc..) ma prive di normalità, di significato di funzione , di senso (niente scuole, asili nido, trasporto pubblico, presidi ospedalieri, ecc.). Tutto ciò spezza gli ultimi legami identitari tra i luoghi urbani e i cittadini.
Le città hanno modo di esistere solo se in esse si svolgono almeno quattro funzioni fondamentali: lavorare, spostarsi, riposare, e trascorre il tempo libero socializzando. La concezione neo liberista con la quale, ope legis, si amministrano le città, ha sostituito il lavoro con la schiavitù, il proletariato con il precariato, la mobilità urbana con l’immobilità urbana, la quiete ambientale con il caos e i ritmi frenetici dell’inconcludente isterismo aziendalista, i parchi, i teatri, le strutture sportive, con gli ipermercati dove il cittadino nel tempo libero è costretto solo a consumare merci.
Gli ipermercati, sono tutti uguali da Torino a Mazzara del Vallo, perché il modo di vivere dell’occidente capitalista è global. E la globalizzazione presto si è fatta globlocal i cui valori sono globali ma al tempo stesso locali. Così i nostri luoghi non sono più nostri, non sono più tipici, singolari, sono di tutto il mondo, quindi di nessuno. Una sorta di provincialismo universalizzato. Così non si è più né locali né globali… semplicemente non si è. Siamo stati travolti dalla post modernità. Tutto omologato, linguaggi, estetiche, gusti, prodotti, ecc.. . Questa è la deriva amorfa della globalizzazione, del mercato globale, del neoliberismo dilagante e spersonalizzante.
I centri commerciali hanno ormai sostituito le piazze e hanno spodestato le città delle loro funzioni urbane, concentrando al loro interno, nei loro inespressivi involucri, nelle loro architetture neutre (facciate a specchio e/o muri chiusi all’esterno come dei fortilizi) funzioni come: cinema, teatri, piazze, bar, ritrovi, parchi giochi, ristorante, ecc.. Tutto dentro spazi chiusi senza identità e senza storia, impermeabili al contesto. Contenitori senza alcuna relazione con il territorio e gli ambiti urbani che li ospitano e soprattutto senza nessun legame culturale. Sono spazi fisici dove chi li vive non attiva affatto processi di identificazione. Sono luoghi dove è impossibile costruire, in essi, la propria identità sociale. Sono luoghi dove chi li frequenta rafforza solo il suo anonimato, trasformandosi da cittadino a cliente, anonimo consumatore.
Quando le città perdono la loro identità fisica, i cittadini automaticamente si trasformano in clienti, così è successo ai messinesi dopo il terremoto del 1908. Ai superstiti sono stati cancellati i riferimenti fisici della loro storia, della loro memoria, trovandosi estranei e questuanti in casa loro si sono trasformati da popolo reattivo e produttivo a popolo gregario e subordinato. Dopo il terremoto è risorta una comunità non di cittadini ma di clienti.
Stiamo assistendo alla lenta agonia dei centri storici dovuta al loro progressivo ed inesorabile svuotamento di funzioni mentre il territorio viene colonizzato dalle nuove strutture post moderne che ovunque impongono i loro omologanti significanti e mortificano e cancellano i Genius loci, l’anima dei luoghi che occupano. Questo processo attecchisce in maniera galoppante nei contesti urbani ove il Genius loci è contaminato, caratterialmente debole o di recente formazione.
Così gli spazi pubblici contemporanei nelle città s’identificano sempre più nell’ipermercato di turno, che via via diventa sempre più grande, sempre più fantasmagorico, fagocitando funzioni urbane con l’evidente ambizione di sostituire la città stessa, i suoi spazi, i suoi usi e i suoi costumi.
I centri commerciali e gli ipermercati sono divenuti dei fortissimi attrattori antropici, che alterano in modo significativo la funzionalità territoriale a vasta scala. Cronici ormai i blocchi autostradali come da esodo vacanziero. Ormai ci siamo abituati ai quotidiani avvertimenti dei bollettini del CIS viaggiare informati: “code ai caselli in entrata e in uscita per flussi intensi da e per le aree commerciali”. Masse sempre più consistenti di cittadini vengono attratti, come da un pifferaio magico, in luoghi che non esprimono alcuna identità specifica, che non attivano processi di socializzazione. Luoghi frequentatissimi che non sono però “luoghi comuni”…. ma “luoghi globali”, luoghi per tutti e per nessuno. “Luoghi dell’alienazione”. Strutture dall’estetica omologata, costruita per essere replicata all’infinito, sempre uguale a se stessa anche nei più improbabili contesti geografici, ubiqua, identica anche agli antipodi, uguale a Ragusa come a Los Angeles. Strutture che compiono impossibili analogie tra Ragusa Ibla e Manhattan.
Dal centro storico al centro commerciale….. è questa la post modernità.
Carmelo Celona
18.018.2017