Il Lusso e l’Architettura
Il lusso e l’architettura
Il lusso è la manifestazione della ricchezza che vuole suggestionare la povertà, sbalordirla. E’ l’espressione di una strategia che ha come obiettivo il dominio sui propri simili. E’ l’importanza data all’esteriorità da parte di chi è carente di valori etici, morali e culturali. E’ il trionfo dell’apparenza sulla sostanza, del superfluo sulla necessità, dell’effimero sul bisogno. È il sintomo di asimmetrie di trattamento sociale: più il popolo è tenuto nel disagio più l’autorità e il potere si mostrano paludati di ricchezza.
Questi atteggiamenti sono propri anche dell’architettura e definiscono l’estetica delle città, connotandone i rapporti sociali, la cui simmetria è inversamente proporzionata alla diffusione del lusso.
Uno degli esempi più rilevanti della categoria del lusso applicata alla città si riscontra nella veste formale delle nuove architetture della Messina risorta dopo il sisma del 1908.
Dalle macerie dell’immane catastrofe, naturale e antropica, sorse un nuovo organismo urbano caratterizzato da inopportuni lussuosi palazzetti signorili, a due levazioni f.t., costituiti da redditizie botteghe al piano terra e da ampi e fastosi appartamenti al piano superiore, la cui diffusione, si affermò sull’esigenza impellente di ricostruire la città con tipologie edilizie e cifre architettoniche, essenziali, in modo da rispondere all’urgente necessità di dare la casa a tutti i sinistrati. Un modo giusto e diretto di ridistribuire in maniera perequata la poca ricchezza e le poche opportunità sociali rimaste, facendo della rinascita fisica della città il supporto concreto per una rinascita sociale e civile, evitando ai superstiti ulteriori drammi in aggiunta a quelli che la sorte gli aveva già inferto, spezzando famiglie, cancellando affetti, annullando esistenze strutturate, sbriciolando beni, proprietà e riferimenti, lasciando nell’animo dei sopravvissuti ferite insanabili che ne abbatterono la soglia della dignità civile esponendoli ad ogni genere di inqualificabili predazioni.
Il lusso dei nuovi palazzetti signorili, di cui ancor oggi si possono osservare i segni, seppur sbiaditi dal tempo e dall’insulto degli uomini, ci racconta di una borghesia agraria esogena, proveniente dall’entroterra che si sostituì alla struttura sociale precedente, radicandosi nel nuovo tessuto urbano con un modello sociale dalle forti radici feudali. I palazzi della nuova Messina ostentarono con enfasi gigli fiorentini, stemmi medicei, marzocchi, bifore di Palazzo Pitti, leoni di San Marco, simboli araldici, balaustre ghirlandate, inferriate fiammeggianti, ecc… Gli interni, quasi sempre anticipati da ampi e fastosi androni, erano decorati a fresco, rivestiti con carta di Francia e con finissime maioliche, arredati da raffinate vetrate e da mobili d’alta ebanisteria fiorentina. Un universo segnico il cui significante era una continua allusione a modelli sociali feudalistici esibiti con marcati caratteri di “lusso”. Un lusso ostentato con teatrali scenografie che presto si trasformò in “status simbol“. Era il lusso dello “Stile Coppedè”, che in quell’epoca era l’”Armani” dell’architettura. Architetto richiestissimo e conteso dai patrizi di tutta Italia, i quali con il suo verbo celebravano il loro blasone, le loro conquiste finanziarie e il loro posizionamento ai vertici dello stato sabaudo.
lo Stile Coppedè in riva allo Stretto si servì di una sfrenata ostentazione di apparati decorativi di superficie pregni di segni e simboli, significanti della categoria del lusso, che trovarono un’accoglienza propizia da parte una borghesia agraria, proveniente dall’entroterra, che più che cercare successi economici aspirava ad un dominio politico e culturale che in pochi anni pienamente raggiunse.
In un momento così drammatico alla città fu imposta la categoria del lusso. Un lusso simulato, la cui accettazione da parte dei messinesi feriti dal destino, nel pieno di quella tragedia, rappresenta la lucida metafora di quello che sarà il cinismo con il quale in futuro sarà gestita, in riva allo Stretto, ogni questione sociale: la spietata costruzione di privilegi, a discapito di una popolazione inerme incapace di reagire alla quale fu azzerato ogni diritto. I superstiti, videro sorgere, nei luoghi dove prima abitavano, elegantissimi palazzetti che perniciosamente cominciarono ad ammirare, sbalorditi, con il naso in sù, durante le passeggiate domenicali, quando, dai periferici inumani quartieri ultrapopolari in cui erano stati scaraventati, scendevano in centro alla ricerca di una nuova identità.
I messinesi presto impararono ad ammirare quelle dimore sfarzose sovrabbondanti di segni fittizi che evocavano radici blasonate e aristocratiche tanto ambite quanto inesistenti ma efficaci per affermare un nuovo medio evo e trasformare i superstiti in un popolo gregario. Chi fece queste scelte ben sapeva che il lusso seduce chi vive di stenti facendogli nutrire invidiose aspettative.
Il lusso allude ma non funziona, non ha uno scopo concreto, è l’uso distorto di materiali costosi che non migliorano nessuna funzione. A cosa servono costosi rubinetti d’oro se da essi esce acqua inquinata? Non è meglio spendere i soldi per fare depuratori e servirsi di normali rubinetti? Dopo il 1908 a Messina i rubinetti d’oro furono i palazzetti signorili e i mancati depuratori le baracche.
Bisogna rimuovere del tutto questa categoria attraverso nuovi processi culturali. Solo così il lusso non servirà più a suggestionare le sue vittime, a non essere più oggetto della loro ammirazione bensì del suo contrario. Anche da questo dipende una compiuta crescita democratica, civile e culturale.
L’architettura del novecento da questo ha tratto una grande lezione. La pialla razionalista ha concepito gli involucri architettonici con superfici nette schiette, oneste, pulite, poeticamente semplici. I puristi, non tutti, hanno fatto di questa semplicità, la bellezza di una complessità risolta, e la plasticizzazione di principi e ideali egalitari; è il caso dell’architettura neo realista del secondo dopo guerra, di cui in città vi sono raffinatissimi esempi (vedi piazza Castronovo), dimostrando che l’architettura trova la sua bellezza non nei decori ma nell’equilibrio di tutti i suoi elementi, nell’armonia dei suoi volumi e nel rapporto con la luce. Giancarlo De Carlo, uno dei più grandi architetti italiani contemporanei, sosteneva che: “l’eccesso di decorazione è la lebbra dell’architettura” .
Carmelo Celona
Messina 18/06/2016