Vedermi vivere

Gli altri ci vedono in un modo a noi del tutto estraneo.

 “Mi si  fissò il pensiero ch’io non ero per gli altri quel che finora, dentro di me, m’ero figurato d’essere”.

La solitudine è la mancata condivisione con gli altri della nostra vita interiore.

La solitudine non è mai con voi; è sempre senza di voi, e soltanto possibile con un estraneo attorno; che del tutto vi ignora, che del tutto vi ignorate, così che la vostra volontà e il vostro sentimento restino sospesi e smarriti in un’incertezza angosciosa”.

Oggi le città sono piene di “non luoghi”. Di luoghi ove non vi è traccia di riferimenti storici e culturali, di elementi di socializzazione e di aggregazione umana. Sempre più centri commerciali e sempre meno piazze e teatri.

La vera solitudine è in un luogo che vive per sé e che per voi non ha traccia nè voce, e dove dunque siete estraneo”.

I pensieri degli altri sono scritti nelle loro involontarie reazioni fisiognomiche, che non riescono a dissimulare. Vi è più chiarezza espositiva nel linguaggio somatico che in quello verbale.

E gli altri? Gli altri non sono mica dentro di me. Per gli altri che guardano da fuori le mie idee, i miei sentimenti hanno un naso. Il mio naso. E un paio d’occhi, ch’io non vedo e ch’essi vedono”.

Quelle mattine quando allo specchio ci appare uno sconosciuto al quale ci viene d’istinto chiedere: scusi lei chi è?

Non potevo vedermi come gli altri mi vedono; pormi davanti al mio corpo e vederlo vivere come quello di un altro. Io non potevo vedermi vivere”.

Tutti aspiriamo a vivere il più a lungo possibile, pochi sanno per quale scopo.

Non conosceva nulla, né si conosceva; viveva per vivere, e non sapeva di vivere, gli batteva il cuore, e non lo sapeva; respirava, e non lo sapeva, muoveva le palpebre, e non se n’accorgeva”.

Il dialogo tra sordi è, quasi sempre, fatto di parole.

Abbiamo usato, la stessa lingua. Ma che colpa abbiamo se le parole, per sé, sono vuote? Vuote. Voi le riempite del vostro senso, nel dirmele, e io nell’accoglierle, inevitabilmente, le riempio del senso mio. Abbiamo creduto d’intenderci; non ci siamo intesi affatto”.  

L’innamoramento scatta con l’idealizzazione della persona amata.

“<Vuoi che non sappia quel che ti piace e quel che non ti piace? Conosco bene i tuoi gusti, io, e come tu la pensi.> Sfido ch’ella conosceva quel suo Gengè più che lo conoscessi io! Se l’era costruito lei!”  

La costruzione di un edificio è un’aggiunta all’esistente attraverso una sottrazione.

Avete mai veduto costruire una casa? Ma guarda un po’ l’uomo ne cava pietre; le squadra; le dispone le une sulle altre e, quello che era un pezzo di montagna è diventata una casa”.  

Nessun grande amore nascerebbe senza l’attivazione di processi di idealizzazione della persona amata.

Vidi per la prima volta mio padre come non lo avevo mai veduto: fuori, nella sua vita, ma non com’era per sé, come in sé si sentiva, ch’io non potevo saperlo; ma come estraneo a me del tutto, nella realtà che, tal quale egli ora appariva. Gli altri non danno e non possono dare a questo padre quella stessa realtà che noi gli diamo. Scoprire come egli vive con gli altri, per un momento si dimentichino che non siamo. L’uomo ch’egli è per loro. Un altro. Non si può sapere”.  

Senza nome non esistiamo.

Il nome è la cosa; se un nome è in noi il concetto d’ogni cosa posta fuori di noi; e senza nome non si ha il concetto e la cosa resta in noi come cieca, non distinta  e non definita; ebbene, questo che portai tra gli uomini ciascuno lo incida, epigrafe funeraria, sulla fronte di quella immagine con cui gli apparvi, e la lasci in pace e non né parli più”.

Ci accorgiamo d’esser soli proprio quando pur vivendo con gli altri non condividiamo nulla. Nessun sentimento, nessuna emozione, nessun pensiero.

Sono quest’albero. Albero, nuvola, domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo”.  

La vita non finisce è la morte che comincia.

Un nome. Conviene ai morti. A chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude”.

 

Carmelo Celona

07/07/2013

 

Lacerti tratti da:

Uno, nessuno e centomila” – 1926

Luigi Pirandello