Giovanni Cammarata e gli Outsider Artists

Il cementiere ribelle che con la sua baracca conquistò il mondo

Nella distratta città di Messina, fino al 2002, ogni Natale vi era un presepio di vero valore artistico e culturale. Un presepe negletto, allestito puntualmente, con cortese caparbietà e con dolce ostinazione, da un uomo che si era ribellato, in un modo forte e inconsueto, ad una grande ingiustizia sociale: la sottrazione violenta di un lavoro con il quale sostenere i suoi cinque figli e la privazione di una casa dove far vivere in modo dignitoso la sua numerosa famiglia. Un mancato riconoscimento di diritti sacrosanti e inalienabili ad uno delle decine di migliaia di messinesi lasciti ai margini della società peloritana allo scopo di farne una riserva di clientela politica e un grande serbatoio di consenso elettorale. Un uomo, forse l’unica vittima della feroce fenomenologia della baracca, capace di reagire. Unica voce in un luogo deserto di coscienze umane e civili, affollato solo da prede e predatori.

Il presepe era quello di via Maregrosso, l’uomo Giovanni Cammarata, retrospettivamente indicato come uno dei più significativi “outsider artist” al mondo. La sua esperienza espressiva fu riconosciuta negli ambienti più autorevoli della critica d’arte contemporanea internazionale già dal 1996, quando John Maizels (forse il più autorevole critico di Outsider Art, tra i primi al mondo ad occuparsi dei geni sconosciuti dell’arte e degli artisti autodidatti)  inserì  “La casa delle meraviglie del Cavaliere Cammarata” (la sua baracca) tra le prime 100 case fantastiche del mondo, pubblicandola nella monografia “The Fantastic Wold“ della casa editrice tedesca “Taschen”. Da quel momento Messina ebbe un vero artista di statura internazionale, ma non se ne accorse o non se ne volle accorgere, come fa puntualmente con le poche eccellenze che resilienti ancora nascono nel suo arrido terreno civile e culturale. Nel tempo che trascorre tra il 1996, anno della sua consacrazione, e il 2002, anno della sua morte, non successe nulla. Tutto si mosse dopo la sua morte. Ma non si mossero processi di valorizzazione o celebrazione retrospettiva della sua opera, come spesso accade con gli artisti incompresi, ma le ruspe. Le ruspe ciniche del capitalismo predatore che cancella ogni identità pur di costruire i centri commerciali dell’omologazione globalizzante. La Casa delle Meraviglie del Cavaliere, riconosciuta in ambito internazionale, venne rasa al suolo e ricoperta con l’asfalto di un desolante e desolato parcheggio di un ipermercato. Oggi restano solo le vestigia di ciò che egli, fortunatamente, aveva abusivamente realizzato sul suolo pubblico, dove le ruspe della legittimità si sono guardate bene dall’intervenire. Un paradosso ricorrente a certe latitudini, dove gli obbrobri sono a norma di legge e la creatività per esprimersi deve commettere abusi e reati.

Il Cavaliere è un autorevole Outsider Artist, perché la sua esperienza espressiva è “fuori” da ogni grammatica stilistica, è “oltre”: “oltre” ogni regola, “oltre” ogni schema, “oltre” ogni categoria, persino la più ribelle, la più avanguardista. La sua cifra è estranea sia al contesto territoriale che a quello sociale ed estetico ma al tempo si scopre essere universalmente comprensibile. Ecco perchè egli è un “Irregolare”.  Perché come tutti gli “Irregolari” il suo verbo è immediato, la sua semantica è universale. Gli Outsider sono fuori da qualsiasi ambiente culturale, sono “oltre”, sono: outsider. Sono il frutto di un’energia che si scatena dalla confluenza di circostanze eterogenee che hanno tutte un filo conduttore che non sta nella produzione formale bensì negli stessi atteggiamenti espressivi, nelle stesse categorie di ribellione, scomposte, irreggimentabili, sfuggenti, irraggiungibili, imprevedibili, non valutabili, difficili da analizzare.

 

Ma chi sono gli “Outsider Artist”

Come si annoverano gli artisti outsider? come si classifica una categoria così sfuggente ad ogni spiegazione e al tempo stesso aperta ad ogni definizione? La critica si affanna a negargli qualsiasi classe, qualsiasi riferimento stilistico. Loro “non sono“. Ma anche quel “non essere” automaticamente diviene una categoria essa stessa, una classe. Così gli “irregolari”, appena li si denomina smettono di essere irregolari e diventano una regola. Appena la loro eterogeneità e la loro unicità la si compara con altre esperienze anch’esse irregolari (Cammarata come Sam Rodia), poichè se ne intuiscono delle assonanze, ecco che diventano una categoria.

Ormai sono dei veri e propri artisti, sono una vera è propria categoria espressiva. Qualcosa, anche se non ancora messa bene a fuoco, li lega. Il fatto stesso di essere riconosciuti come inclassificabili li classifica. Resta da capire quale sia quel fattore che li unisce nel farli riconoscere “non unici“. Insomma cosa lega questa “non categoria”?  Molto spesso l’attività irrequieta di certi critici alla ricerca di nuove categorie espressive, non tanto per furore scientifico quanto per il bisogno professionale di trovare ad ogni costo nuove frontiera dell’arte dove essere specialisti incontrastati, e questo è un ambito che può offrire buoni sbocchi professionali, visto che dove si “criticano” gli artisti maggiori i posti sono già tutti occupati, e non ci sono orizzonti futuri per chi non ha proprio il talento di Federico Zeri. Nondimeno, osservando con il distacco di chi ha un punto di vista diverso, del “tengo famiglia” e non è alla ricerca di nuovi dogmi, appare evidente che un filo rosso impalpabile che li unisce c’è. Un impercettibile legame casuale simile a quello che si riscontra in tutte le fenomenologie, è gli outsider sono una fenomenologia.

Sembra unirli un gioco di incastri eterogenei che svela sorprendentemente l’esistenza di un universo ultroneo. Di un altro mondo, che va ancora esplorato con rigore e attenzione, sperando che gli “addetti ai lavori” risparmino a questi onesti ribelli, il trattamento compiaciuto e ipocrita che spesso riservano agli artisti autoreferenziali o accreditati, facendo credere a certi afasici imbrattatele di essere il nuovo Jakson Pollock, a certi alessici concettuali di esprimere l’impegno ideologico di un nuovo Marcel Duchamp e a certi inebetiti informali di avere la sensibilità di Alberto Burri, pur di essere il loro critico di riferimento, pur di celebrare loro stessi.

Se guardiamo bene appare evidente che il filo che li unisce non attiene soltanto ai profili psicologici, bensì è di natura prettamente formale. Invisibili evidenti sfumature, inconsapevoli caratteri evanescenti concordano ad atteggiamenti d’insieme che li connotano in una simiglianza. A legarli sono certe sfumature ricorrenti nell’espressività delle loro opere, nei caratteri, nei particolari, nei linguaggi: una sorta di gramelot, come un linguaggio onomatopeico dai toni universali, li unisce.

Cifre frequenti, atteggiamenti espressivi similari che di volta in volta si evidenziano: nell’uso dei materiali poveri come pietre, sassi di fiumi, cocci di bottiglie, ecc.; nelle tecniche semplici e immediate, tipiche di chi non ha sviluppato evoluzioni ed esperienze tecniche; nei colori vivaci e forti, quasi mai sfumati; nei marcati contrasti cromatici, tipici di chi non ha evolute tecniche pittoriche. Così i loro linguaggi sono quasi sempre accumunati dalla povertà dei materiali e da una ricorrente semplicità applicativa che non sente il bisogno della perfezione esecutiva quanto quello di un’impellente incontenibile esternazione. Ciò rende icastici i loro verbi, seppur espressi senza alcuna grammatica, senza alcuna sintassi, senza alcuna regola. Tutto questo conduce le loro semantiche da una dimensione esclusivamente personale ad una universale. Sono privi d’influenze artistiche e condizionamenti di gusto, di riferimenti culturali specifici. Non citano quasi mai, sono sempre originali, poichè non sono la prosecuzione di nessuna evoluzione artistica. Loro non hanno né un prima nè un dopo. Tutti termini propri di chi reagisce ad un disagio con espressioni scomposte ed istintive. Di chi sente il bisogno di esprimere la sua denuncia contro ingiustizie e soprusi in forma plateale. Di solito sono personaggi scomodi, capaci di lucide denunce metaforiche esclusivamente individuali. La loro opera quasi sempre scaturisce da un’epifania artistica attivata da un trauma, da un evento esistenziale che ha scatenato un bisogno di ribellione praticato in forma artistica. Sono visionari. E il sogno è una condizione universale.

La ribellione di Cammarata

Tutto ciò ricorre pienamente anche nell’opera di Giovanni Cammarata e lo proietta in una dimensione artistica internazionale. Tra i tanti Cammarata che nel mondo declinano lo stesso atteggiamento artistico, sgrammaticato ma poetico, producendo ognuno linguaggi diversi, Cammarata è uno di loro. Lui sta a pieno titolo nell’Olimpo degli “artisti senza patente”, dei geni creativi che vivono in un universo parallelo, in una realtà estetica ultronea a quella riconosciuta. La loro cifra stilistica si forma su una folgorazione, esito di un dramma. Nella maggioranza dei casi la risposta ad un’ingiustizia, ad una asimmetria di trattamento, ad una condizione di disagio.

Cammarata con il suo giardino delle meraviglie improbabili è un “outsider artist” che mette in imbarazzo il contesto culturale che lo ospita. I termini estetici della sua denunzia, teneramente incisivi, poeticamente plateali, sono perciò politicamente scomodi ed emotivamente pungenti. La sua espressività anarcoide grida al contesto sociale ed urbano, con la sua “bellezza altra”, la denuncia di una mancata armonia sociale. La sua estetica alternativa è radicalmente critica verso il degrado civile ed urbano in cui è stato costretto a vivere, lui come tantissimi altri suoi concittadini.

Lui, con la sua resilienza artistica, in un contesto disumano, ha attivato un forte processo di “semiosi popolare” (La semiosi è un processo dove il valore del segno supera quello della parola) gravandosi dell’onere di sviluppare un “lessico altro” che assume il valore di segno eversivo. Cosi il segno ribelle di Cammarata denunzia la decadenza sociale del quartiere Maregrosso e interpreta il bisogno collettivo di bellezza e di civiltà di chi è costretto ad abitarlo. Inventa a questo scopo una grammatica mai vista, un gergo mai sentito, che interpreta il bisogno inconsulto e irrazionale di possedere una forma di bellezza, che fornisca a quella comunità dimenticata la dignità perduta e un’identità civile e formale.

Un tempo in questi giorni di feste natalizie il suo presepe arricchiva ancor di più la Casa delle Meraviglie. Il presepe di Cammarata a Maregrosso lo si poteva andare a visitare accolti dal Cavaliere che si faceva immortalare ieratico accanto al suo presepe (come nella foto 1), eroico combattente con l’arma della bellezza contro consuetudini conservatrici, rassegnazioni civili, fatalismi sociali. Se ne stava lì fiero come i suoi elefanti da combattimento, due dei quali per fortuna sono stati recuperati e sottratti l’oblio, restaurati e oggi si posso ammirare esposti alla Galleria D’arte Moderna e Contemporanea del Comune di Messina, dove al galoppo ci spiegano la bellezza della sua eresia e avverano il sogno del Cavaliere che ambiva affinchè le sue opere fossero “un onore per la città e per il Sindaco”.  Un sogno per il quale ha combattuto per tutta la vita subendo ogni tipo l’oltraggio, dall’incomprensione all’indifferenza di una città che flagella chi la ama e compiace, servile, chi la opprime.

Non so dire se l’opera di Cammarata sia bella o no, quel che è certo che l’opera del Cavaliere commuove. Commuovono i termini della sua ribellione e della sua forte denuncia. Commuove la sua onesta, la sua schietta indignazione contro le condizioni incivili e le cause immorali che sono all’origine della metafora deteriore di Maregrosso.